Opinionisti Claudio Cherubini

Catena umana musicale per non dimenticare Giuseppe Pinelli e Piazza Fontana

L’idea di una manifestazione senza bandiere è partita da alcuni musicisti

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Sabato 14 dicembre una catena umana di musicisti (professionisti e non) attraverserà nel primo pomeriggio le strade del centro di Milano per ricordare quanto successe cinquant’anni fa unendo piazza Fontana e via Fatebenefratelli, il luogo della bomba fascista alla Banca Nazionale dell’Agricoltura che fece 17 vittime il 12 dicembre 1969 e la sede della Questura dove tre giorni dopo morì Giuseppe Pinelli, detto Pino, ferroviere anarchico, in circostanze non chiarite precipitando dal quarto piano dopo lunghe ore di un estenuante interrogatorio.

L’idea di una manifestazione senza bandiere è partita da alcuni musicisti ed è stata subito accolta dalla moglie di Giuseppe Pinelli, Licia Rognini, dalle figlie Claudia e Silvia e dalla sorella Liliana, venuta a mancare l’ottobre scorso. Molto tardi, solo dieci anni fa, Giuseppe Pinelli fu riconosciuto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la diciottesima vittima della strage di piazza Fontana: non solo oggetto di infondati sospetti, ma trattenuto illegalmente in Questura oltre la scadenza del fermo, non protetto da un suicidio, lasciato cadere o peggio gettato dalla finestra. Di certo c’è che fu il ministero dell’Interno a indirizzare le indagini verso la pista anarchica e che la questura di Milano fu guidata in modo informale e occulto da un gruppo di funzionari inviati a Milano dal Viminale (4 poliziotti dei servizi segreti con nome in codice “Squadra 54”) che marcò stretto e isolò il commissario Luigi Calabresi, ritenuto da una larga fascia dell’opinione pubblica complice dell’omicidio di Pino Pinelli.

Lo scopo di “Squadra 54” era di indagare su piazza Fontana, ma non riferire niente ai magistrati e depistare le indagini. Per questo la questura di Milano il 19 dicembre non comunicò al magistrato (Ugo Paolillo, il sostituto procuratore di turno) elementi che segnalavano sospetti su Giovanni Ventura, un neonazista veneto. Infatti accadde che, ai primi dubbi sulla pista anarchica da parte della magistratura milanese, la Procura della Repubblica di Roma si appropriò delle indagini con il sostituto Vittorio Occorsio che nel frattempo aveva fatto trasferire a Roma un altro anarchico fermato a Milano, Pietro Valpreda. Ma la competenza romana del processo non stava in piedi e nel 1972 il caso tornò a Milano e venne assegnato al sostituto procuratore Emilio Alessandrini. Tornarono immediatamente gli elementi dell’indagine che indirizzavano verso la pista neofascista veneta. Il giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, con i pubblici ministeri Emilio Alessandrini e Luigi Fiasconaro, avviarono il procedimento contro Franco Freda e Giovanni Ventura, esponenti di punta di una cellula di Ordine Nuovo, e giunsero al punto di svelare le deviazioni a livello dei vertici dei servizi segreti. Ma ci fu chi non volle che il processo si svolgesse a Milano e le stesse trame oscure che avevano messo la bomba della strage riuscirono a spostarlo a Catanzaro. Nel frattempo Valpreda restò in carcere per tre anni da innocente perché per lui, invece, la giustizia fu molto efficiente e contrastò velocemente le azioni del suo difensore fra cui la richiesta di scarcerazione per mancanza di indizi. La sua vicenda giudiziaria si concluse nel 1987 con l’assoluzione e nel frattempo anche Giuseppe Pinelli era stato dichiarato innocente.

Una storia piena di depistaggi svolti dai servizi di sicurezza nazionali (il famigerato Sid), dai funzionari della polizia e dal ministero degli Interni con trasloco dei processi, con quattro suicidi o presunti tali (Giuseppe Pinelli, Ivo Della Savia, Edgardo Ginosa, Vittorio Ambrosini), con otto morti di testimoni per infortunio o fatto passare per tale (Calzolari, Baldolari, Aricò, Casile, Scordo, Borth, Lo Celso, Gruber) e la fuga all’estero di Guido Giannettini (estremista di destra assunto dai servizi segreti italiani e a cui riferiva Giovanni Ventura) con la protezione di Andreotti, ministro della Difesa.

Gli apparati dello Stato che furono definiti “deviati” in realtà deviati non lo erano, bensì erano ben consapevoli che la scelta del terrore attraverso le stragi era un modo per far fronte alle crescita di consensi dei comunisti e delle forze sociali di sinistra in genere. Nel fare questo lo Stato si alleò con la destra neofascista e neonazista e in particolare con Ordine Nuovo, i cui elementi furono protetti prima dal MSI di Giorgio Almirante e poi da Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini. Ma già secondo Aldo Moro esistevano centrali straniere dell’intelligence che avevano interferito sulla strage: quelli dei regimi militari di Spagna e Grecia. E Moro dubitava anche che ci fossero anche altri servizi del mondo occidentale implicati. Nel suo memoriale Aldo Moro scrisse: “io non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere […] che questi e altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra e avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva del terrore indiscriminato […] allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, a una gestione moderata del potere”.

Negli ultimi mesi del 1969 si era accesa una forte lotta sindacale con una mobilitazione collettiva molto diffusa e talvolta violenta per il rinnovo dei contratti, tanto da coniare il termine “autunno caldo”. Momenti importanti di lotta sindacale si erano già manifestati nel 1959 e nel 1962, ma il 1969 fu molto più intenso e partecipato. Per dare un’idea si pensi che le ore perdute per conflitti di lavoro nell’industria manifatturiera nel 1962 erano state 113 milioni, mentre nel 1969 superarono i 300 milioni, pari a 23 ore per ciascun occupato dipendente. Così i poteri nazionali e internazionali reagirono con atti di violenza e indiscriminati contro la società civile. Scrive lo storico Nicola Tranfaglia: “Dal 1969 al 1975 vengono compiuti in Italia 4384 atti di violenza contro persone o cose, legati tutti a un’esplicita matrice politica. L’85 per cento di questi fatti si svolge appena in 16 province su 94, soprattutto a Roma, Milano e Torino, le sedi deputate della vita politica e di quella economica. Di tutti gli episodi accaduti in quegli anni, l’83 per cento è dichiaratamente opera dell’estremismo neofascista o destra radicale più o meno colluso e strumentalizzato”.

L’inizio, di quella che venne chiamata la “strategia della tensione”, viene fatto coincidere con lo scoppio della bomba collocata nell’istituto bancario di piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969. Anche se c’è chi identifica l’inizio della “strategia della tensione” con l’uccisione da parte della polizia di due braccianti agricoli, manifestanti di Avola (Siracusa) il 2 dicembre 1968. Di fatto la crescita del Partito comunista italiano, che ad ogni elezione aumentava il numero dei propri deputati al parlamento, allarmava le forze politiche moderate e di destra anche se, dopo i fatti del Cile del 2 settembre 1972 (dove la Cia aveva sostenuto l’esercito nel colpo di stato contro Salvador Allende e instaurato la sanguinaria dittatura di Pinochet), la politica comunista fu molto prudente e moderata fino a sostenere di fatto, negli anni 1976-79, pur non entrando nel governo, il partito della Democrazia Cristiana alla guida del paese “nella stagione breve ma intensa”, chiamata della “solidarietà nazionale”. In ogni caso, commenta Tranfaglia, “la difesa, pur necessaria, dal pericolo comunista (inteso all’inizio come invasione dall’esterno, quindi come possibile sovvertimento delle istituzioni a livello legale o illegale) negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, si tramutò, di fronte alla crisi del centro-sinistra e all’avanzata politica ed elettorale del Partito comunista, nel tentativo prima di instaurare nel nostro paese un regime militare sull’esempio greco o turco, quindi in un’azione sotterranea di infiltrazione non solo della destra radicale ma anche di gruppi di estrema sinistra allo scopo di favorire lo sviluppo di opposti terrorismi in modo da rendere impossibile un’apertura di governo ai comunisti da parte delle forze di centro […] secondo un’impostazione sostenuta dai governi degli Stati Uniti, dall’alleanza atlantica e dalle loro organizzazioni militari e di spionaggio”.

Nel 1969 ci furono in Italia 145 attentati terroristici (di cui almeno 96 attribuibili all’estrema destra). Giovanni Ventura confessò tutti gli attentati esplosivi del 1969, tranne piazza Fontana. A Milano il gruppo di Franco Freda il 25 aprile collocò le bombe alla Stazione Centrale di Milano, nel padiglione della Fiat alla fiera di Milano, sui treni nella notte tra l’8 e il 9 agosto. Il giorno della strage di piazza Fontana contemporaneamente a Roma scoppiarono altre bombe: alla Banca Nazionale del Lavoro, all’Altare della Patria e al Museo del Risorgimento. Un’altra bomba restò inesplosa alla Banca Commerciale in piazza della Scala a Milano e fu fatta esplodere dagli artificieri, distruggendo così ogni indizio.

Le forze politiche che governavano l’Italia in quegli anni organizzarono manovre per proteggere i terroristi neri cercando di incastrare gli anarchici milanesi. Non riuscirono a incarcerare gli anarchici, ma a Catanzaro il 20 marzo 1981 Giovanni Ventura e Franco Freda vennero assolti per insufficienza di prove (anche se condannati per gli altri attentati del 1969 a Milano e a Padova). Nel 1987 la sentenza diventò definitiva. Non verranno mai condannati per piazza Fontana, ma dai molti processi successivi risultò evidente la responsabilità di Freda e Ventura anche su piazza Fontana. Tuttavia si dovette aspettare il 2005 per leggere negli atti dei giudici la condanna morale e storica di Ordine Nuovo guidato da Freda e Ventura in merito alla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.

Invece ancora non sappiamo la verità sulla morte di Giuseppe Pinelli, ma il recente caso Cucchi fa molto pensare: troppi depistaggi, troppe incoerenze, troppe versioni false e contrastanti, troppi strani episodi come da ultimo quello dell’appuntato di fiducia dei capi della questura che si infilò in ambulanza e seguì il Pinelli fin dentro la sala operatoria, non lasciandolo fino alla morte. Perché la questura di Milano aveva paura di un moribondo? Per molti ancora oggi Giuseppe Pinelli è stato ucciso, ma di certo la vicenda di Pinelli, del Pino staffetta partigiana, del ferroviere anarchico, del sindacalista, della vittima innocente (ma prescelta) di uno Stato antidemocratico in balia dei fascisti, deve essere ricordata a monito che, seppure in modo diverso, non succedano più violenze contro i cittadini, contro la libertà, contro la voglia di cambiamento. Non devono essere dimenticate le “stragi di Stato”, quei momenti oscuri degli anni della “strategia della tensione”, i personaggi e le idee politiche responsabili di tutto quel dolore.

Sono molte le personalità che hanno aderito alla catena umana e musicale del 14 dicembre, così come gruppi e associazioni di realtà culturali diverse. Ovviamente non mancano i distinguo e tra questi c’è proprio il circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa dove militava Giuseppe Pinelli che accusa l’iniziativa  di essere “un contenitore vuoto” e “ridursi a una sorta di messa obbligatoria” mentre “certe lotte sono ancora vive e questo va ribadito sempre”. Una posizione rigida e dogmatica, che nel suo anacronismo ripropone il male di sempre di una sinistra che si divide.

Invece l’iniziativa della “catena musicale” vuole unire e dimostrare come la “lotta” sia ancora viva perché “dall’incubo può nascere un sogno” come hanno scritto i promotori Sergio Casesi, Marco Pellegrino, Massimo Marcer, Marco Toro, che hanno pensato “ad una grande performance che renda il cinquantesimo un’occasione di riflessione, di gioiosa partecipazione, di slancio fraterno verso l’altro. […] Da quella ferita indelebile possiamo ripartire per sognare, per ribadire il nostro desiderio di diritto e di pace. E cosa più di una musica lanciata al cielo è simile alla volontà più pura di giustizia sociale, pace e libertà?”.

Redazione
© Riproduzione riservata
09/12/2019 12:02:37

Claudio Cherubini

Imprenditore e storico locale dell’economia del XIX e XX secolo - Fin dal 1978 collabora con vari periodici locali. Ha tenuto diverse conferenze su temi di storia locale e lezioni all’Università dell’Età Libera di Sansepolcro. Ha pubblicato due libri: nel 2003 “Terra d’imprenditori. Appunti di storia economica della Valtiberina toscana preindustriale” e nel 2016 “Una storia in disparte. Il lavoro delle donne e la prima industrializzazione a Sansepolcro e in Valtiberina toscana (1861-1940)”. Nel 2017 ha curato la mostra e il catalogo “190 anni di Buitoni. 1827-2017” e ha organizzato un ciclo di conferenza con i più autorevoli studiosi universitari della Buitoni di cui ha curato gli atti che sono usciti nel 2021 con il titolo “Il pastificio Buitoni. Sviluppo e declino di un’industria italiana (1827-2017)”. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi storici in opere collettive come “Arezzo e la Toscana nel Regno d’Italia (1861-1946)” nel 2011, “La Nostra Storia. Lezioni sulla Storia di Sansepolcro. Età Moderna e Contemporanea” nel 2012, “Ritratti di donne aretine” nel 2015, “190 anni di Buitoni. 1827-2017” nel 2017, “Appunti per la storia della Valcerfone. Vol. II” nel 2017 e in riviste scientifiche come «Pagine Altotiberine», quadrimestrale dell'Associazione storica dell'Alta Valle del Tevere, su «Notizie di Storia», periodico della Società Storica Aretina, su «Annali aretini», rivista della Fraternita del Laici di Arezzo, su «Rassegna Storica Toscana», organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, su «Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», rivista delle Università Politecnica delle Marche (Ancona), Università degli Studi di Camerino, Università degli Studi “G. d’Annunzio” (Chieti-Pescara), Università degli Studi di Macerata, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Repubblica di San Marino.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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