Opinionisti Claudio Cherubini

Ricordi di guerra

L’economia era in ginocchio soprattutto per il grano non raccolto nell’estate del 1944

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Gli Alleati arrivarono a Sansepolcro, occupata da circa un mese dai partigiani, il 3 settembre 1944, mentre il 25a fine luglio avevano conquistato Le Ville e successivamenteil 29 erano entrati in Anghiari, attraversando la valle del Sovara. Anche Pieve S. Stefano e Caprese Michelangelo erano già state liberate, però solo gli ultimi giorni dell’agosto 1944.

I liberatori inglesi non si comportarono diversamente dagli invasori tedeschi: “Se non cadiamo dalla padella nella brace, ne manca poco”, commentò il parroco di Micciano ad Anghiari, don Giuliano Giglioni. Infatti le azioni di guerra non erano condizionate dalla presenza dei civili, non si preoccuparono di mettere in sicurezza la popolazione e anche i saccheggi proseguirono. Come raccontò Arduino Brizzi “i nuovi occupanti «visitarono» più volte lo stabilimento Buitoni, asportando dal magazzino ricambi tutti i materiali elettrici e meccanici che facevano loro comodo”.

Un’economia in ginocchio

L’economia era in ginocchio soprattutto per il grano non raccolto nell’estate del 1944 e per quello non seminato nella stagione successiva. Nel libro “La via del Trebbio”, Andrea Bertocci racconta che “La mietitura, come del resto tutti i lavori agricoli, fu ritardata dagli eventi bellici. Intenzionalmente venivano mitragliati i contadini intenti al raccolto per impedire che il grano battuto venisse requisito […] e portato all’ammasso”. Così a Pieve S. Stefano i raccolti erano andati distrutti per l’80% quello del grano, per il 95% quello delle patate e per il 98% quello del granturco. Analogamente il bestiame era stato ridotto a poche unità per le asportazioni: -78% i bovini, -85% gli ovini, -97% i suini e -95% gli equini.

Con le distruzioni dell’agosto 1944, le comunicazioni erano interrotte verso ogni direzione: tutti i ponti erano stati fatti saltare in aria, anche quelli di più scarsa importanza.

PIEVE SANTO STEFANO COME CASSINO

Dopo il passaggio del fronte a Caprese Michelangelo le case inabitabili erano soltanto il 3% (circa un ventina su 650 abitazioni esistenti), mentre a Monterchi quelle distrutte erano solamente 9.

Anche ad Anghiari i danni non furono rilevanti, mentre più pesante fu il bilancio delle vittime civili durante il passaggio del fronte.

Invece il comune che subì più danni materiali dal passaggio della guerra fu quello di Pieve S. Stefano. Così l’amministrazione comunale scrisse il 22 maggio 1945 al presidente del Consiglio dei ministri: “La situazione del Comune di Pieve S. Stefano è uguale a quella di Cassino e ciò per riconoscimento non solo delle Autorità Militari Alleate ma anche dei Governi Inglesi ed Americani che ne hanno fatto esplicita menzione con loro organi sia attraverso la radio che attraverso la stampa”. Si stimò che circa l’84% delle abitazioni del capoluogo fossero completamente distrutte (272 su 324) e che un altro 9% fosse  gravemente danneggiato. Nel resto del territorio comunale oltre il 21% delle abitazioni non esistevano più (96 su 450) e altre 109 erano inagibili. Anche fra i magazzini e i fabbricati industriali se ne contarono 4 distrutti e 7 gravemente danneggiati: fra questi vi era l’officina della società Fanfani Cherici Donati Sarti che era stata fatta saltare in aria, anche perché da qualche mese il capannone era diventato un laboratorio di “spezza-legna” per “i camion a gas” che di continuo arrivavano e ripartivano per Roma per rifornire di questo carburante la capitale.

Alla fine del 1944 Pieve S. Stefano si ritrovò così a essere un mucchio di macerie, dove le segherie di Angiolo Fanfani e di Attilio Nasini, la prima mossa “da un trattore a testa calda” e la seconda da un motore a gasolio di Santino Mearini, ricominciarono a lavorare segando i tronchi dei grossi pioppi del Campo alla Badia, quelli atterrati dai tedeschi, e altro legname, riviveva Omero Gennaioli nel suo volumetto di ricordi del 1991. Infatti già ai primi di novembre tutti gli sfollati di Pieve S. Stefano erano rientrati e si preparavano ad affrontare l’inverno, ricostruendo il paese e tentando di rintracciare il bestiame e le masserizie depredate dai tedeschi e poi abbandonate lungo la fuga.

Segnali di ricostruzione a Caprese Michelangelo

Anche a Caprese Michelangelo nel dicembre 1944 il sindaco Daniele Mondani ordinò, minacciando la precettazione, di iniziare “la cottura della fornace di calce del Sig. Bartoli”, al fine di non interrompere i lavori di ricostruzione dei ponti. Contemporaneamente vennero sollecitati i lavori di progettazione della strada Fragaiolo-Valboncione per risolvere il problema della disoccupazione e don Tersilio Rossi, nel suo libro “La valle dei castagni” racconta: “In quel periodo, alle direttive di Luigi Meazzini, a suon di piccone e di pala, gli uomini di Valboncione e di Fragaiolo costruirono la strada che unisce i due centri. Ora che non esistevano ministero dei lavori pubblici, genio civile, sovrintendenza ai monumenti e tutto l’apparato burocratico di carte bollate, di commissioni, di sopraluoghi, di funzionari, di ispettori, manovrabili, salvo rare eccezioni, con bustarelle, il compito appariva agevole. Bastarono otto giorni, senza l’ausilio di tecnici, per ultimare il lavoro a tempo di record”.

La rinascita

Erano anni che la popolazione lottava contro la fame e le miserie della guerra, reagendo come poteva alle diverse situazioni: alcuni si erano nascosti, più o meno armati, nelle montagne, tanti civili avevano cercato rifugio nelle campagne, molti avevano aiutato i partigiani, i rifugiati e gli sfollati, qualcun’altro si era arricchito con la borsa nera. Così nei mesi dopo la liberazione la voglia di rinascita percorse tutta l’Italia e anche la Valtiberina fu investita dall’entusiasmo per la riconquistata libertà.

(2 – fine)

Redazione
© Riproduzione riservata
18/11/2019 15:39:30

Claudio Cherubini

Imprenditore e storico locale dell’economia del XIX e XX secolo - Fin dal 1978 collabora con vari periodici locali. Ha tenuto diverse conferenze su temi di storia locale e lezioni all’Università dell’Età Libera di Sansepolcro. Ha pubblicato due libri: nel 2003 “Terra d’imprenditori. Appunti di storia economica della Valtiberina toscana preindustriale” e nel 2016 “Una storia in disparte. Il lavoro delle donne e la prima industrializzazione a Sansepolcro e in Valtiberina toscana (1861-1940)”. Nel 2017 ha curato la mostra e il catalogo “190 anni di Buitoni. 1827-2017” e ha organizzato un ciclo di conferenza con i più autorevoli studiosi universitari della Buitoni di cui ha curato gli atti che sono usciti nel 2021 con il titolo “Il pastificio Buitoni. Sviluppo e declino di un’industria italiana (1827-2017)”. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi storici in opere collettive come “Arezzo e la Toscana nel Regno d’Italia (1861-1946)” nel 2011, “La Nostra Storia. Lezioni sulla Storia di Sansepolcro. Età Moderna e Contemporanea” nel 2012, “Ritratti di donne aretine” nel 2015, “190 anni di Buitoni. 1827-2017” nel 2017, “Appunti per la storia della Valcerfone. Vol. II” nel 2017 e in riviste scientifiche come «Pagine Altotiberine», quadrimestrale dell'Associazione storica dell'Alta Valle del Tevere, su «Notizie di Storia», periodico della Società Storica Aretina, su «Annali aretini», rivista della Fraternita del Laici di Arezzo, su «Rassegna Storica Toscana», organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, su «Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», rivista delle Università Politecnica delle Marche (Ancona), Università degli Studi di Camerino, Università degli Studi “G. d’Annunzio” (Chieti-Pescara), Università degli Studi di Macerata, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Repubblica di San Marino.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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