Opinionisti Claudio Cherubini

Cent’anni fa passava la Spagnola

A Sansepolcro i primi decessi avvennero nella seconda metà dell’aprile 1918

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Tra l’autunno del 1918 e la primavera dell’anno successivo, si diffuse in tutt’Europa una pandemia influenzale causata da un virus portato dalle truppe statunitensi che nell’aprile 1917 erano sbarcate in Francia. La notizia di quest’epidemia arrivò dalla Spagna, paese non sottoposto alla censura della guerra, e per questo si credette che anche l’influenza arrivasse dalla penisola iberica e quindi fu chiamata ‘influenza spagnola’. Si presentò in tre ondate: la prima nella primavera del 1918, la seconda in autunno e la terza tra l’inverno ed i primi mesi del 1919. Il contagio si ebbe prima fra i militari, ma poi si diffuse tra la popolazione provocando molte più vittime che gli eventi bellici. Con i circa 21 milioni di morti in tutto il mondo e intorno ai 600.000 decessi in Italia, forse è stata la pandemia più grave dopo la peste nera del 1348.

A Sansepolcro i primi decessi avvennero nella seconda metà dell’aprile 1918 ed alla fine di giugno si contarono circa 150 casi, esclusivamente fra i militari del 70° Fanteria accampati alle porte del paese, come ci testimonia il rapporto del dottor Giulio Cesare Scatolari, ufficiale sanitario del comune. Secondo questa fonte i morti di questa prima ondata furono intorno al 15 per cento dei contagiati.

L’ufficiale sanitario ci dice anche che la malattia scomparve completamente da luglio alla fine di settembre e ciò lo conferma anche una corrispondenza tra il regio commissario Angelo Stagni e il prefetto di Arezzo. Invece la cronaca locale alla fine di agosto segnalava già nuovi casi d’influenza. Di certo anche la seconda ondata partì dagli accampamenti militari. Questa volta ad esserne colpiti per primi furono, “con una virulenza stragrande”, scrisse l’ufficiale sanitario del comune, i prigionieri di guerra austro-ungheresi impiegati nella località di Aboca nel taglio dei boschi per conto del Commissariato Generale per i Combustibili Nazionali. Il dottor Scatolari, che da giugno aveva assunto anche il servizio sanitario dei prigionieri di guerra del distaccamento di Aboca, rilevò che ad ammalarsi erano stati quasi esclusivamente gli ungheresi e soprattutto i detenuti posti nei due accampamenti più in alto e lontani dai corsi d’acqua, mentre i prigionieri presso i due accampamenti posti lungo i due ruscelli ne erano rimasti quasi immuni.  

Tuttavia l’epidemia si sparse rapidamente e dalle tende militari dilagò nelle campagne e da qui ben presto arrivò in paese, dove la presenza dell’ospedale portò anche i soldati malati in cerca di assistenza. Così il 1° ottobre il regio commissario evidenziò come i due medici condotti del paese non riuscissero da soli a far fronte alla situazione, richiedendo personale militare per l’assistenza sanitaria dei prigionieri, anche in conseguenza del disinteressamento del medico provinciale che non riteneva compatibile “in queste circostanze che medici condotti, già aggravati di tanto lavoro, a[vessero] la cura dei prigionieri”.  Ad Aboca arrivò un ufficiale medico, ma ormai l’epidemia si era diffusa tra i cittadini e ben poco poterono fare i medici condotti.  

Il 2 ottobre il regio commissario di Sansepolcro fece affiggere un manifesto nel tentativo di rassicurare la popolazione e prescrivendo le regole per evitare il contagio. Si fece cenno alla pandemia influenzale del 1889-90, la cui carica aggressiva sarebbe però risultata notevolmente inferiore alla ‘spagnola’, ma a cui le autorità amministrative e sanitarie fecero riferimento “nel tentativo di trovare un precedente, nel passato, cui appigliarsi per trovare qualcosa di ‘già visto’, che neutralizzasse la paura dell’ignoto”. Si stilò un decalogo di comportamenti puntando sull’igiene pubblica ed individuale e sull’evitare le frequentazioni dei malati e dei luoghi affollati. Oggi la ricerca medica ci ha confermato in modo non più confutabile che la diffusione dell’infezione non era da imputare alle pessime condizioni igieniche e quindi inefficaci quanto inutili furono le raccomandazioni emanate dalle autorità sull’igiene pubblica. Molto più utili risultarono i consigli sulla profilassi individuale ed ancor più azzeccati quelli sul divieto di affollamento di locali pubblici. A Sansepolcro furono fatte cessare le proiezioni del cinematografo, venne vietata la commemorazione dei defunti del 2 novembre, l’inizio dell’anno scolastico venne continuamente prorogato per tutto il 1918 e l’asilo infantile venne chiuso. Infatti  “l’influenza viaggiava con l’aria, col respiro degli uomini” e si approfittava della miseria, del sovraffollamento delle abitazioni e della debolezza organica delle persone dovuta all’insufficiente ed inadeguata alimentazione, causata anche dalla guerra. I socialisti locali dalle colonne del proprio periodico scrissero che la gente aveva commentato il manifesto dicendo: “Bisognerà morir per forza. Farebbero meglio a star zitti e a non tormentarci”; accusarono l’autorità di prendere in giro il popolo “là ove si raccomanda vita sobria: Chi non è sobrio, temperante, moderato nel mangiare, quando il vitto è scarso e deficiente?”. D’altra parte impedire i contatti era impossibile perché le situazioni più pericolose riguardavano soprattutto gli affollamenti davanti agli spacci comunali e alle botteghe di generi alimentari nei giorni della settimana in cui era autorizzata la vendita e dove si vendevano i generi tesserati.

La pandemia chiamata ‘influenza spagnola’ si presentava con una febbre alta, con tosse, stanchezza, mal di testa, dolori lombari e agli arti, congiuntive iniettate, talvolta anche epistassi e nausee. Ad aggravare il decorso della malattia spesso si aggiunsero complicanze batteriche, infezioni che andarono a sovraccaricare, in modo spesso letale, l’organismo già indebolito prima dalla carente alimentazione e poi dall’influenza. In questo senso le pessime condizioni igieniche di Sansepolcro, che all’inizio del 1918 erano state oggetto di uno scambio polemico tra l’ufficiale sanitario del comune ed il regio commissario, divennero una variabile importante per il decorso della malattia che spesso aveva quindi terribili complicazioni. “Rare quelle cerebrali (encefaliti) e gastroenteriche – soprattutto fra gli adulti. Le più frequenti erano invece quelle a carico dell’apparato respiratorio”, come registrò anche l’ufficiale sanitario di Sansepolcro nel suo rapporto. Il dottor Scatolari annotò anche che l’influenza non colpì gli anziani immunizzati dal virus dell’epidemia del 1889 ed i casi di ‘spagnola’ “si ebbero quasi esclusivamente fra la gioventù e la media età”.

L’ufficiale sanitario di Sansepolcro indicò circa un 20 per cento di morti fra gli ammalati di ‘spagnola’. Se il dato venisse riferito ai soli abitanti di Sansepolcro apparirebbe sovrastimato. Molto probabilmente l’ufficiale sanitario contò in quel quinto di ammalati non sopravvissuti all’influenza anche coloro che non erano abitanti del Borgo toscano, ma che erano militari prigionieri o di stanza qui ed eventuali altri forestieri deceduti a Sansepolcro. Questa percentuale però risulta sovrastimata anche con i dati ricavabili dalle denunce che il regio commissario quotidianamente inviava al prefetto di Arezzo. Tuttavia la mortalità del 1918 salì di oltre tredici punti rispetto all’anno precedente (dal 22,2 al 35,4 per mille) e risultò assai più alta rispetto alla media della Toscana che, sebbene insieme al Lazio fosse la regione più colpita dalla ‘spagnola’, nel 1918 aveva un tasso di mortalità del 29,6 per mille (dodici punti in più rispetto al 1917). I dati ricavabili dai telegrammi che ogni giorno il commissario di Sansepolcro inviava al prefetto di Arezzo sono in linea con quando riscontrabile nella provincia aretina. Infatti secondo queste denunce le morti per influenza a Sansepolcro sarebbero state circa il 14 per cento di tutti i decessi del 1918, ma la percentuale deve essere incrementata con le morti avvenute prima del 12 ottobre e quindi probabilmente non si discosta molto da quel 24 per cento registrato nella provincia di Arezzo.

Il rapporto dell’ufficiale sanitario di Sansepolcro mostra altre imprecisioni. Infatti il medico scrisse che “i già malati di forma pulmonare (per tubercolosi) non ebbero modificazioni di sorta al loro male né riguardo alla maggiore morbilità né alla mortalità”, mentre altri storici sostengono come la ‘spagnola’ “contribuì non poco ad elevare la mortalità tubercolare” perché “un gran numero di decessi per tubercolosi venne ascritto all’epidemia di influenza”. Inoltre anche sulla distinzione fra i sessi, l’ufficiale sanitario di Sansepolcro non vide differenze e annotò soltanto che il numero delle donne decedute, andò a modificare la percentuale della mortalità “qualora trattavasi di gestanti”. Nonostante non disponiamo di dati precisi, alcune elaborazioni su scala nazionale avrebbero calcolato “una supermortalità femminile per alcune classi di età nell’anno della «spagnola»” e complessivamente una mortalità delle donne italiane del 8,4 per mille contro il 6,6 degli uomini. Il dato nazionale sembra poter confutare l’impressione dell’Ufficiale sanitario di Sansepolcro: “In effetti, la malattia infierì in modo particolare su giovani donne e ragazze, come se si fosse incaricata di porre rimedio all’ineguaglianza di fronte ad una morte di genere, quella in guerra, che mieteva solo vittime maschili”.

Tuttavia dal marzo 1919, a dire dell’ufficiale sanitario di Sansepolcro, la ‘spagnola’ si riscontrò solo su qualche raro caso isolato, mentre una nuova influenza arrivò a dicembre e durò fino a tutto febbraio 1920. Stavolta il numero dei colpiti fu molto più basso e il dottor Scatolari stimò la mortalità intorno all’8 per cento, anche perché nessuno di coloro che aveva preso la ‘spagnola’ si riammalò. L’influenza, come malattia stagionale, era tornata alla sua normalità.

 

Estratto dal libro “Una storia in disparte”, Sansepolcro 2016, pp. 419-424, dove si possono leggere le fonti utilizzate.

Redazione
© Riproduzione riservata
01/04/2019 19:39:48

Claudio Cherubini

Imprenditore e storico locale dell’economia del XIX e XX secolo - Fin dal 1978 collabora con vari periodici locali. Ha tenuto diverse conferenze su temi di storia locale e lezioni all’Università dell’Età Libera di Sansepolcro. Ha pubblicato due libri: nel 2003 “Terra d’imprenditori. Appunti di storia economica della Valtiberina toscana preindustriale” e nel 2016 “Una storia in disparte. Il lavoro delle donne e la prima industrializzazione a Sansepolcro e in Valtiberina toscana (1861-1940)”. Nel 2017 ha curato la mostra e il catalogo “190 anni di Buitoni. 1827-2017” e ha organizzato un ciclo di conferenza con i più autorevoli studiosi universitari della Buitoni di cui ha curato gli atti che sono usciti nel 2021 con il titolo “Il pastificio Buitoni. Sviluppo e declino di un’industria italiana (1827-2017)”. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi storici in opere collettive come “Arezzo e la Toscana nel Regno d’Italia (1861-1946)” nel 2011, “La Nostra Storia. Lezioni sulla Storia di Sansepolcro. Età Moderna e Contemporanea” nel 2012, “Ritratti di donne aretine” nel 2015, “190 anni di Buitoni. 1827-2017” nel 2017, “Appunti per la storia della Valcerfone. Vol. II” nel 2017 e in riviste scientifiche come «Pagine Altotiberine», quadrimestrale dell'Associazione storica dell'Alta Valle del Tevere, su «Notizie di Storia», periodico della Società Storica Aretina, su «Annali aretini», rivista della Fraternita del Laici di Arezzo, su «Rassegna Storica Toscana», organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, su «Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», rivista delle Università Politecnica delle Marche (Ancona), Università degli Studi di Camerino, Università degli Studi “G. d’Annunzio” (Chieti-Pescara), Università degli Studi di Macerata, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Repubblica di San Marino.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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