Anche il linguaggio conta
Le attività umane indispensabili al vivere non sono solo mangiare, lavorare, dormire
Stiamo ancora vivendo nel periodo più complicato che si ricordi a causa del COVID-19.
Diciamoci la verità, nel corso della stagione estiva ci siamo tutti illusi che il miglioramento dell’andamento dell’epidemia ci avviasse verso la fine del tunnel.
Molti esperti avevano affermato che “il virus ormai era clinicamente morto”, che “ormai il virus ha una carica virale del tutto insignificante”, e via discorrendo. Solo alcuni virologi ci spiegavano come l’estate fosse un periodo di quiete prima di una nuova tempesta, virologi puntualmente derisi e tacciati di “terrorismo”. Tutti abbiamo sperato che si sbagliassero e invece. Invece le piacevoli voci che dicevano che tutto stava finendo hanno incentivato comportamenti superficiali e un calo dell’attenzione che stiamo cominciando troppo presto a pagare. In tutto questo penso che l’inverno sarà uno dei più lunghi della nostra storia umana recente, ed allora credo sia bene modificare, oltre che le nostre abitudini anche il nostro linguaggio.
Ormai tutti sappiamo a memoria che, dobbiamo indossare la mascherina (possibilmente anche cambiarla perché in giro si vedono mascherine che rasentano l’indecenza), lavarsi spesso le mani e mantenere il distanziamento sociale.
Qui mi sorge un primo dubbio linguistico, il distanziamento che impedisce al virus di espandersi è quello fisico. Il distanziamento sociale purtroppo è un fenomeno che conosciamo da anni. Quello sociale è un distanziamento che separa il centro dalla periferia delle nostre città, che segna l’esistenza delle persone in base alla famiglia dove nascono ciò prendendo atto che ormai l’intervento costituzionalmente previsto di rimuovere le differenze sociali è miseramente naufragato nelle politiche poste in essere negli ultimi decenni. La possibilità di usufruire del cosiddetto ascensore sociale sempre più compressa affogata nel precariato patologico, nel naufragare della meritocrazia, e potrei continuare.
Dunque non distanziamento sociale, che al contrario va combattuto, ma distanziamento fisico che consente di attuare una prima barriera al virus, un distanziamento dolorosissimo ma necessario. Un distanziamento che nega, ci nega, la comunicazione di tutto l’incomunicabile con altre forme che sta dietro ad un abbraccio. Un abbraccio, un gesto unico che sa declinare meglio di ogni altro affetti diversi, l’abbraccio a un padre, a una madre, ad un fratello o sorella, ad un amico. Abbracci negati che però in quella negazione esplicano il più profondo sentimento di cura verso la persona amata, abbracci negati che simboleggiano il più profondo dei “ti voglio bene”. Ti voglio così bene che per tutelare la cosa più preziosa che abbiamo, la salute, lo nego ora con la speranza che presto torneremo ad abbracciarci più forte di prima.
Altra parola indecente che si sente è “persona infetta”, quella parola infetta che racchiude in se l’assurdo stigma di chi si è ammalato come fosse colpa sua. Le persone di ammalano e certamente non è una colpa essere malati, ciò vale per tutte le malattie a meno che non si voglia entrare nell’assurdo ragionamento del “se l’è andata a cercare” esprimendo un giudizio su tenori di vita e malattie conseguenti. Davanti a chi sta male serve solidarietà e non giudizi.
In ultimo ritengo davvero stucchevole la definizione, in sede di normativa varata al fine del contenimento del contagio, di “attività non essenziali”, riferito a tutte quelle attività umane considerate non necessarie al fine del proseguimento della vita umana.
Chi decide cosa è essenziale o meno?
Un bar non è essenziale? Chi lo spiega a chi ha investito la propria vita professionale ed economica in tale attività?
La palestra, la scuola di danza, la piscina, il ristorante etc. etc. non sono essenziali?
Chi lo spiega che dietro queste attività vi sono anni di studio, di sacrifici, di investimenti non solo economici ma che investono l’intera sfera personale di chi a tali attività si dedica?
Non esistono attività “non essenziali”, esistono solo attività che per loro natura meritano più attenzione in questo dato momento storico, ma è ingiusto e squallido bollare la vita professionale delle persone come se ciò che hanno costruito fosse rinunciabile alla base.
Le attività umane indispensabili al vivere non sono solo mangiare, lavorare, dormire. Nei limiti del possibile e con le massime regole e cautele le attività che attengono la vita dell’individuo come essere sociale vanno mantenute, regolamentate si, regolamentate con regole e controlli rigidi si, incentivare ad esplicare tali attività in forme diverse, modalità diverse, luoghi diversi (anche con il fondamentale supporto della tecnologia), ma non bollare tutto come “non essenziale”.
Tutto ciò che attiene la sfera delle nostra umanità e personalità è essenziale, ci possiamo rinunciare per un periodo davanti al rischio della vita? Certamente si. La vita è il diritto primario e fondamentale di ciascuno di noi senza il quale è impossibile godere degli altri diritti. Ma dichiarare determinate attività come non essenziali è già una prima resa e sconfitta. Eravamo una società fortemente individualista prima del COVID-19, annientare e derubricare a “non essenziali” le attività che incentivano l’incontro sociale non farà altro che farci entrare nel post COVID-19 in una società ancora più individualista. Se accadesse questo credo che davvero avremo perso tutti.
Giacomo Moretti
Nato ad Arezzo – Dopo aver assolto agli obblighi di leva comincia subito a lavorare, dalla raccolta stagionale del tabacco passa ad esperienze lavorative alla Buitoni e all’UnoaErre. Si iscrive “tardivamente” all’età di 21 anni alla Facoltà di Giurisprudenza di Urbino dove conseguirà la laurea in corso. Successivamente conseguirà il Diploma presso la Scuola di Specializzazione per le professioni legali. Assolta la pratica forense, nel 2012 si abilita all’esercizio della professione forense superando l’esame di stato presso la Corte d’Appello di Firenze. Iscritto all’Ordine degli Avvocati di Arezzo esercita la professione forense fino al dicembre 2016. Attualmente si è sospeso volontariamente dall’esercizio della professione di avvocato per accettazione di incarico presso un ente pubblico a seguito della vincita di un concorso. Molto legato al proprio territorio, Consigliere comunale ad Anghiari per due consiliature consecutive. Pur di non lasciare la “sua” Anghiari vive attualmente da pendolare. Attento alla politica ed all’attualità locale e non solo, con il difetto di “dire”, scrivere, sempre quello che pensa. Nel tempo libero, poco, ama camminare e passeggiare per la Valtiberina e fotografarne i paesaggi unici.
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