La tassa sulla fame
Cronache di altri tempi: la chiusura dei mulini e i moti popolari (anche ad Anghiari)
Il 1° gennaio di 153 anni fa, entrava in vigore nel neonato Regno d’Italia la tassa sul macinato. In realtà non era una novità perché fin dal basso medioevo le entrate sui diritti sulle acque e sul macinato garantivano consistenti e sicure entrate finanziarie ai Signori in quanto nelle attività delle popolazioni il mulino rappresentava un elemento di «un'importanza che difficilmente può essere sopravvalutata» come scrisse Giovanni Cherubini. Proprio in Toscana si ha la prima notizia di una gabella delle farine in Firenze nel 1288 e nel corso del XIV e XV secolo l’imposta sulla farina e sulla macinatura venne soppressa, ristabilita, aumentata senza carattere di continuità finché nel 1552 Cosimo I definì una legge più strutturata. Questa tassa sul macinato fu applicata fino al 1679 e poi reintrodotta nel Settecento. Nel XVIII secolo l’imposta era diffusa in molti Stati italiani dal Piemonte allo Stato Pontificio fino alla Sicilia, difesa dall’aristocrazia terriera e timidamente osteggiata dai fisiocratici e dai liberali; in Toscana neppure le riforme leopoldine prima e quelle napoleoniche poi riuscirono nella sua definitiva soppressione. Con la Restaurazione venne prontamente reintrodotta in diversi luoghi, soprattutto nello Stato Pontificio e in Sicilia, e negli anni successivi la sua abolizione diventò la ‘bandiera’ dei moti rivoluzionari risorgimentali.
Tuttavia passati pochi anni dalla costituzione del nuovo Regno d’Italia, il mugnaio tornò suo malgrado a essere esattore dello Stato di una tassa che colpiva insopportabilmente le classi popolari, ma anche gli stessi mugnai. La legge n. 4490 del 7 luglio 1868 entrò in vigore il 1° gennaio 1869 per risolvere il pesante deficit statale provocato dal processo di unificazione in cui lo Stato unitario assorbì il debito pubblico degli antichi Stati italiani, dalle guerre di indipendenza, dal brigantaggio e dalla crisi economica gravando, insieme ad altri strumenti fiscali coevi, sulle popolazioni rurali e facendo così pagar loro il peso dei mutamenti economici e sociali dell’Italia. Promotore della legge fu Quintino Sella, ministro delle finanze, che aveva ben previsto l’ingente gettito finanziario della tassa ma che ignorò che la nuova imposta portava il Paese alla fame.
La tassa sul macinato fu applicata nel periodo 1869-1884 nella misura di 2 lire a quintale per il grano, 1 lira per il granturco e la segale, 1 lira e 20 centesimi per l’avena e 50 centesimi per tutti gli altri cereali, le castagne e i legumi secchi.
L’amministrazione statale tentò di sensibilizzare l'opinione pubblica nei confronti della nuova tassa. Il settimanale “La Provincia di Arezzo” scrisse: «La tassa sul macinato non è punto vessatoria pei contribuenti; non lo è pei mugnai». Invece «la tassa sulla fame, come la maledì il grido popolare» fu accolta «con subbugli e dimostrazioni aspre in tutta Italia», scrive Riccardo Bacchelli nel suo romanzo Il mulino del Po. In realtà negli anni dopo l’Unità d’Italia erano state numerose le rivolte dei contadini contro il crescente gravame fiscale, ma erano proteste contro decisioni, abusi, sopraffazioni di autorità locali. Ora la tassa sul macinato imposta dallo Stato centrale era la goccia che faceva traboccare il vaso: da un lato i contadini erano già gravemente vessati da altri tributi sui consumi di prima necessità e ora venivano toccati i cereali che erano alla base dell’alimentazione. Così la nuova imposta trasformò le agitazioni locali in una ribellione generale che in un paio di settimane contò oltre 250 morti, più di 1000 feriti e quasi 4000 arresti.
La prima rivolta di massa del nuovo Stato italiano
La sommossa spontanea attraversò tutta l’Italia, ma solo nell’area padana emiliana, dove la popolazione soffriva maggiormente la miseria per l’alto tasso di disoccupazione dei braccianti, esplose con violenza di massa; altrove gli scontri violenti furono episodici e circoscritti. In Toscana la prima segnalazione arrivò da Pelago, un comune a pochi kilometri da Firenze tra il Valdarno e la Valdisieve, dove il 3 gennaio 1869 «contadini armati assalirono la casa comunale difesa dalla Guardia Nazionale», racconta la cronaca del “La Nazione”; ci furono parecchi feriti e un morto. Negli stessi giorni a Pitigliano nel grossetano, l’amministrazione comunale, dopo aver minacciato l’uso della forza pubblica, con molta diplomazia calmò una vigorosa protesta a cui seguirono arresti negli ambienti clericali. Ad Arezzo «a prevenire qualunque tentativo che colà pure si facesse dai partiti estremi», tranquillizzava il quotidiano filogovernativo “La Nazione”, venne inviata una compagnia composta di novanta soldati. Tuttavia anche nella provincia di Arezzo, con l'entrata in vigore della legge sulla tassa sul macinato, vi furono proteste e agitazioni anche se non allarmanti, come tentava di rassicurare il settimanale “La Provincia di Arezzo”, voce della pubblica amministrazione. Al contrario “La Nazione” documentò diverse ribellioni nei monti tra l’alto Val d’Arno, il Casentino e l’alta Valtiberina dove il 4 gennaio 1869 l’esercito fermò una violenta protesta ad Anghiari e ci fu anche una manifestazione, più pacifica, a Palazzo del Pero. Così scrisse “La Nazione” del 9 gennaio 1869: «A Borgo San Sepolcro, alcuni disordini vennero commessi per opera specialmente di individui venuti dal finitimo territorio di Città di Castello; parecchi arresti furono quindi operati, e si istruisce la relativa procedura. Nessun altro fatto è venuto a perturbare colà la pubblica quiete. Le dimostrazioni più gravi sono avvenute a Laterina ed Anghiari il 4 corrente. Nel primo di questi due paesi i tumultuanti, che erano assai numerosi, si mossero per esigere l’apertura dei mulini, usando minacce anche verso la pubblica forza che dovette sguainare le sciabole. Quest’atto bastò per imporre ai tumultuanti, i quali dopo le intimidazioni legali cessarono da ogni disordine. Si fecero parecchi arresti, e fu aperto d’ordine governativo un mulino cui fu destinato un agente erariale per l’esazione della tassa. Lo stesso avvenne ad Anghiari, ove buon numero di villici recavansi ai molini aprendoli violentemente e gettando grida sediziose: ma, nella sera, essendo giunti trenta soldati, tutto rientrò nella solita calma, e vari arresti furono operati».
Il diritto alla macinazione
Innanzitutto l’amministrazione statale fu colta di sorpresa perché a protestare per primi furono proprio coloro sui quali lo Stato faceva affidamento per la riscossione della tassa: i mugnai. Per molti di loro la prima reazione fu quella di non ritirare le licenze e di non aprire i mulini il 1° gennaio 1869, tanto che i moti contro la tassa sul macinato in un primo momento apparvero come moti per ottenere la riapertura dei mulini chiusi e in alcune zone d’Italia furono veramente la causa della ribellione. Anche nell’aretino, dove al 7 gennaio secondo il corrispondente del “La Nazione” «di 551 molini esistenti, 120 [erano] aperti legalmente e 5 coattivamente» (poi una decina di giorni dopo erano 187 quelli aperti con regolare licenza e 7 quelli aperti per ordine delle Autorità), le proteste più violente come quelle di Castelfranco di sopra, Rassina, Laterina, Anghiari, Pomaio e Pieve S. Stefano avevano l’obiettivo di aprire i mulini.
I mulini chiusi i primi giorni del 1869 sparsero preoccupazione e paura nelle campagne dove da essi dipendeva la sussistenza dei contadini che quindi prima rivolsero verso i mugnai il loro malcontento e poi l’obiettivo fu l’abolizione della tassa. Se le popolazioni urbane potevano rimanere estranee a quest’imposizione perché la tassa di fatto veniva anticipata dai fornai ed era così più facilmente mascherata nel prezzo del prodotto finale, le popolazioni rurali invece la subivano direttamente perché erano i contadini, con i loro carri e animali, che portavano personalmente i cereali al mulino e ne ricevevano in cambio la farina a cui veniva sottratta la quantità per la tassa e sulla quale il contadino discuteva senza intermediari con l’esattore-mugnaio. Così mentre i mulini di città rimasero aperti, quelli delle campagne, dove il mugnaio era a contatto diretto con i propri clienti ad affrontare il problema di riscuotere qualcosa che avrebbe poi dovuto pagare allo Stato, chiusero. Nelle campagne del nord d’Italia la serrata dei mugnai fu compatta, mentre perdeva d’intensità scendendo verso sud. Lo stesso ministro riteneva rilevante il problema nell’aretino e in provincia di Firenze e secondo i periodici locali lo sciopero dei mugnai era diffuso anche nel senese e nelle montagne di Massa, Lucca e Pistoia; meno intenso in Umbria e nelle Marche e molto rarefatto al meridione, dove la tassa era evasa con molta facilità.
Nelle campagne spesso i moti non furono solo manifestazione del rifiuto di pagare una tassa, ma assunsero anche altri significati politici. Il clero non ebbe un ruolo attivo ma di certo lo spirito antiunitaro influenzò i manifestanti, così come i movimenti radicali e repubblicani poterono cavalcare la ribellione.
In ogni caso la rivolta popolare voleva affermare il diritto alla macinazione e non metteva in discussione l’autorità precostituita, mirava «al rispetto di quei patti naturali su cui si fondavano sia il diritto regio al comando, sia quello popolare alla sopravvivenza». Invece «i moti del macinato vennero affrontati dallo stato come un moto eversivo, pericoloso per la stessa sicurezza del regno», commenta Stefano Cammelli. Ad esempio, ad Arezzo venne sequestrato il bisettimanale clericale “La Vespa “, che sulla testata si definiva «Giornale serio-faceto per tutti». Gli articoli incriminati erano tre, tutti pubblicati nel numero del 16 gennaio 1869: La partita dei due contatori, Il silenzio delle due Sicilie e Nostra Corrispondenza (inviata da Palermo il 9 gennaio). Così il 20 gennaio 1869 “La Vespa” raccontò il fatto: «Nel primo e nel terzo articolo il Fisco ravvisò dei concetti e delle espressioni che recano offesa alla legge sulla macinazione dei cereali attualmente in vigore (dice lui) nel Regno. Nel secondo poi il Fisco trovò inserito un asserto indirizzo che racchiude un voto e una minaccia di distruzione dell’attuale ordine Monarchico Costituzionale» e difese le proprie ragioni sostenendo che aveva riportato fatti di cronaca e le idee di chi era contro la legge sul macinato, ma che aveva anche sostenuto sempre che doveva essere obbedita.
La rivolta contro la tassa sul macinato fu domata duramente in Emilia con l’intervento dell’esercito e a metà gennaio del 1869 la situazione era pressoché tornata alla normalità e a settembre il moto si era dissolto ovunque nel resto della penisola, lasciando però in evidenza la gravissima situazione nelle campagne dove la vita era precaria e regnava la miseria e l’ingiustizia sociale.
Per approfondimenti: Claudio Cherubini, “La tassa sulla fame”. L’imposta sul macinato nell’aretino: 1969-1884, in “Rassegna Storica Toscana”, organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, Firenze, Leo S. Olschki, anno LXV, n. 1, gennaio-giugno 2019, pp. 123-142.
Claudio Cherubini
Imprenditore e storico locale dell’economia del XIX e XX secolo - Fin dal 1978 collabora con vari periodici locali. Ha tenuto diverse conferenze su temi di storia locale e lezioni all’Università dell’Età Libera di Sansepolcro. Ha pubblicato due libri: nel 2003 “Terra d’imprenditori. Appunti di storia economica della Valtiberina toscana preindustriale” e nel 2016 “Una storia in disparte. Il lavoro delle donne e la prima industrializzazione a Sansepolcro e in Valtiberina toscana (1861-1940)”. Nel 2017 ha curato la mostra e il catalogo “190 anni di Buitoni. 1827-2017” e ha organizzato un ciclo di conferenza con i più autorevoli studiosi universitari della Buitoni di cui ha curato gli atti che sono usciti nel 2021 con il titolo “Il pastificio Buitoni. Sviluppo e declino di un’industria italiana (1827-2017)”. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi storici in opere collettive come “Arezzo e la Toscana nel Regno d’Italia (1861-1946)” nel 2011, “La Nostra Storia. Lezioni sulla Storia di Sansepolcro. Età Moderna e Contemporanea” nel 2012, “Ritratti di donne aretine” nel 2015, “190 anni di Buitoni. 1827-2017” nel 2017, “Appunti per la storia della Valcerfone. Vol. II” nel 2017 e in riviste scientifiche come «Pagine Altotiberine», quadrimestrale dell'Associazione storica dell'Alta Valle del Tevere, su «Notizie di Storia», periodico della Società Storica Aretina, su «Annali aretini», rivista della Fraternita del Laici di Arezzo, su «Rassegna Storica Toscana», organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, su «Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», rivista delle Università Politecnica delle Marche (Ancona), Università degli Studi di Camerino, Università degli Studi “G. d’Annunzio” (Chieti-Pescara), Università degli Studi di Macerata, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Repubblica di San Marino.
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