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Una lingua straniera? No, “El Dialett Sampieran”

Parole perdute da salvare nelle scuole

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“A sampier us parla e csì”. Di primo acchito può sembrare una lingua straniera. Ma è davvero così? No, sfatiamo ogni dubbio. Si tratta semplicemente del dialetto sampierano. La sua traduzione, in lingua italiana corrente, è semplicemente “A San Piero si parla così”. Ma sono tante altre le parole, o meglio ancora le frasi che vogliamo riportante in questo spaccato di storia. “In do tu vai stasera” che sta per “dove vai questa sera”, oppure quelle più complesse come “e vag a magna una piada col presciut”; ovvero “vado a mangiare una piadina con il prosciutto”. Ma potremmo continuare per molto. “Cos tu fai ed man”, quindi, “cosa fai domani” e poi “tu sei busciard” che sta per “sei un bugiardo”. Sono tutte affermazioni che vengono utilizzate in dialetto inzuppato di una espressività unica, un sistema territoriale linguistico che serve per comunicare; non va mescolato con altri luoghi seppur limitrofi, anche perché man mano che ci si sposta anche di pochi chilometri esistono cambiamenti di lingua. Scrivere è un conto, ma alla fine il tono è completamente differente. Il dialetto sampierano è la lingua orale del luogo, ha dato vita ad un panorama linguistico ricco e multiforme tanto da arrivare a coniare il termine “gallico-toscaneggiante”: ha una notevole moltiplicazione dei suoni vocalici, permette di acquisire usi e costumi provenienti dall’Appennino ma tra due regioni confinanti, il quale rende difficile lo studio per la mancanza di regole ortografiche. Fino al 1923 questa parte dell’Alto Savio era conosciuta come la Romagna in Toscana. A San Piero si utilizzano proverbi e modi di dire per raggiungere il massimo significato con il minimo sforzo, ma che poi solo un vero sampierano riesce a capire. Una tradizione sconosciuta e miscelata, con eccezione per alcuni canti, dettati dentro le osterie con opere trasmesse nei secoli che ancora oggi sono contagiose. Va sottolineato che questo dialetto ha forme espressive tipiche: canzoni, filastrocche che costituiscono un vero e proprio bagagliaio significativo.

Il Comune è lo stesso, quello appunto di Bagno di Romagna, ma le differenze sono marcate tanto da affermare che sono quasi due ‘lingue’ differenti. Il confine linguistico fra le cadenze fonetiche è davvero marcato: più dolce e cantilenante il ‘sampierano’, più secco e toscaneggiante quello ‘bagnese’. Ma a tutto c’è un perché. È bene precisare che quello sampierano finisce sempre con la consonante, mentre in quello bagnese si tende ad aggiungere una “e” finale. La parola giovanotto, per esempio, da una parte diventa ‘giovnott’ mentre dall’altra ‘giovnotte’. La differenza dei due dialetti forse sta nelle barriere innalzate da campanili di parte, soprattutto in passato, che hanno contribuito ad isolare le piccole comunità pur vivendo in aree vicine. Si continua ad utilizzarli per il loro senso riconosciuto, per esprimere un determinato concetto, una componente chiave della cultura locale, valori, speranze con cui ripercorrere i sentieri della memoria che oggi sono sempre più inquinati dalla corsa frenetica della vita. Al tempo stesso, però, raccontare il dialetto sampierano in poche pagine è un’impresa faticosa: si perde nella notte dei tempi, una lingua sopravvissuta all’identità di un popolo e che ha ritrovato recentemente un interesse nella propria gente, che sente ancora il richiamo delle proprie radici nella sua ricchezza culturale. Si moltiplicano le iniziative per salvarlo, espressione di una storia millenaria ed un pezzo di comunicazione ancora oggi adoperato: per ascoltare le frasi in volgare è sufficiente frequentare il mercoledì mattina la piazza del mercato a San Piero in Bagno. Ma occorre fare presto poiché il naturale ricambio generazionale rischia di portarsi via anche questo bello spaccato. La sfera dialettale nell’Alta Valle del Savio sembra che non abbia regole vincolanti per colui che parla: è meno controllato rispetto alla lingua ‘corretta’ e per questo un modello standard non esiste. Porta dentro un tesoro linguistico che narra identità e tradizione, un tempo destinato ad un pubblico di massa che oggi viene considerato qualcosa di meno nobile rispetto alla lingua nazionale. Dietro alle parole e per mezzo delle parole è possibile risalire al bagaglio di una civiltà, aiuta a capire chi siamo stati, si riconosce in quelle parole le dimensioni umane artistiche e artigianali. La forza di pronunciare a volte fa una componente fondamentale di quel carattere sereno e aperto che è la qualità riconosciuta della comunità. Rappresenta il collegamento culturale legato al territorio con la possibilità di ritrovare la terminologia delle arti e dei mestieri: dalla pastorizia all’agricoltura, fino alle tecniche di produzione. È importante conservarne le origini vocali dei nostri nonni per capire dove hanno inizio e come nascono, viene parlato in famiglia dalle persone più anziane e spesso viene usato nelle campagne. In dialetto non si può dire tutto, ma certe cose possono uscire anche meglio: per qualche cittadino di San Piero, utilizzando una similitudine calcistica, è come salvarsi in corner nel momento del dialogo. Salvare una parola del dialetto, che non sia stata registrata dai numerosi vocabolari esistenti, significa recuperare la parte di una comunità di parlanti. Esattamente come le persone che prendono delle deviazioni, così fanno le lingue; un mix di conoscenza e tradizioni da scoprire. Forse, il valore che oggi si dà è limitato per la perdita di espressioni, seguite da un impoverimento di vocaboli, annodati alle professioni e alle attività che stanno scomparendo, ma hanno un importante ruolo come scrigno che conserva la storia: usi e valori di chi lo parla. In passato la mannaia della discriminazione significava essere guardati dall’alto verso il basso dagli amici in città, una barriera sociale che divideva le famiglie povere da quelle ricche, parlare in dialetto era vergogna e sembrava di essere poco colti. L’uso del computer e della tecnologia ha spinto ad abbracciare nuovi percorsi e a sforzarsi di imparare l’inglese piuttosto che custodire i dialetti. I giovani che fuggono in cerca di un futuro più brillante, giustamente, con una nuova lingua con cui è più facile comunicare rischiano di dimenticare le tradizioni della propria terra di origine. Tra i fattori che uccidono i dialetti c’è semplicemente il passare del tempo. Una società fatta di persone, ricca di un’espressività difficilmente eguagliabile, deve preservare, valutare e conservare il passato con lo sguardo avanti verso le generazioni future, serve a comunicare il pensiero veicolo della cultura dei territori.

PAROLE PERDUTE DA SALVARE NELLE SCUOLE

“Il sentire dei canti”. È il progetto portato avanti all’interno dell’asilo delle Grazie di San Piero in Bagno per mantenere la tradizione dialettale tra i banchi di scuola. Un documento con filastrocche tutte in dialetto per imprimere questa ‘lingua’ nella mente e nel cuore dei bambini già dalla scuola dell’infanzia. Un progetto nato da un’idea dell’asilo con la preziosa collaborazione di Simonetta Lambertini, scrittrice e illustratrice di origini sampierane trasferitasi poi con la famiglia a Roma. Le parole e il dialetto dei nostri nonni aiutano a ricordare le tradizioni e attraverso il dialetto le persone più longeve riescono anche a mantenere l’intensità dei ricordi d’infanzia. C’è però chi a San Piero in Bagno mantiene ancora viva questa importante tradizione, tantoché nel lontano 2015 ha pure ricevuto un importante riconoscimento in Campidoglio. Attraverso la pubblicazione dal titolo “Vocabolo del dialetto Sampierano”, l’associazione per la salvaguardia delle tradizioni culturale “Il Faro di Corzano” porta avanti questo lavoro. Gli autori del libro sono Ivan Vicchi, Franco Locatelli e Paolo Eugenio Spighi. “Quel dialetto è stato definito dagli esperti ‘gallo italico con pronuncia verso il toscano’ e si tratta di un linguaggio che i nostri nonni sapevano interpretare alla perfezione – dicono gli autori di quello che viene definito una sorta di vocabolario - tramandato oralmente di padre in figlio nella cultura contadina, mentre poco in forma scritta. Per realizzare la stesura è stato necessario raccogliere le parole con l’aiuto e l’interessamento di tante persone locali, che hanno fornito parole in quantità. A queste persone va il ringraziamento anche se non è possibile riportare tutti i nomi di coloro che hanno passato i bigliettini con la loro lista di ‘parole perdute’ che hanno voluto consegnare alla memoria dei sampierani. Dopo la raccolta ha fatto seguito una fase di scelta e copiatura, poi un lungo lavoro di rifinitura e correzioni, ripensamenti e revisione di bozze. È stato fatto un grande lavoro di stesura con gli autori tuffati nell’impresa di scrivere. Per l’inserimento delle parole si è scelto dei criteri perché non si potevano introdurre tutte quelle arrivate sul tavolo. Alcune di queste si possono pronunciare tranquillamente in dialetto. In altri casi si è cercato di creare dei principi di leggibilità per rendere graficamente i suoni che non esistono in italiano, un percorso nel quale non poteva mancare una riflessione sul tema: dialetto che profuma di castagne, considerato il ruolo centrale che la lingua ha avuto, e che oggi con il mondo verso la globalizzazione si sta perdendo. Alcune scelte possono essere messe in discussione, ma ci siamo trovati di fronte ad una materia come il dialetto sampierano non molto ufficializzato e con la difficoltà della pronuncia. Oggi è usato sempre più raramente con gli estranei e in situazioni pubbliche. Il dialetto solo chi appartiene alla zona d'origine può parlarlo bene e comprenderne il significato, ma è grazie a quelle persone che è stato possibile realizzare il dizionario. Premio che assume un significato ancora più importante poiché nella Protomoteca furono premiati anche due personaggi illustri del trecento e del cinquecento: Francesco Petrarca da Arezzo e Lodovico Ariosto, autore dell’Orlando Furioso”.

Notizia tratta dal periodico l'Eco del Tevere
© Riproduzione riservata
12/04/2024 11:15:11


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