Bufale, leggende e storie strane sul vino
Cosa c'è davvero dentro il nostro bicchiere
Quando per anni sei stato degustatore ultra esperto e responsabile delle pubblicazioni enologiche di Slow Food, di cose ne hai viste, sentite, assaggiate. Pure quelle che la maggior parte dei consumatori ignora del tutto. E Tiziano Gaia, autore di Stappato, pubblicato da Baldini+Castoldi, ne racconta finalmente un bel po'. Come si fa a mantenere la lucidità quando "al termine della prima settimana, seicento assaggi avevano già azzerato ogni mia volontà di capirci ancora qualcosa"? Come ci si mantiene obiettivi se "in quattro, cinque giorni mi spazzolavo la storia del Barolo o dell’Amarone, pretendendo anche di giudicarla. Era come stilare la classifica dei migliori film della stagione, fermandosi ai titoli di testa. Il mio spettacolo non andava mai oltre l’unghia del bicchiere. E seduti di fronte a me, non vedevo più colleghi e collaboratori, ma polli da batteria, costretti a beccare senza sosta"? Con molta ironia. Stappato fa il contropelo a molte inesattezze e leggende della degustazione del vino, e svela una serie di dettagli e retroscena, questi sì, davvero gustosi. Ne abbiamo parlato con l'autore.
Tiziano: cento vini da degustare e giudicare al giorno. Roba da stroncare un cavallo. Come si regge un ritmo del genere?
"Io l'ho fatto per una decina d'anni e poi me ne sono tirato fuori. A nessuno verrebbe in mente di usare il termine usurante per un lavoro come quello, ma di ebbra usura si tratta (ride). Nel libro, anche per invitare al viaggio insieme a me il lettore che non è uno specialista della materia, ho usato questo modo molto ironico e un po' rock and roll di descrivere cosa c'è dentro la grande filiera del vino. Perché trovarsi a giudicare un prodotto di eccellenza e di enorme popolarità mette addosso anche un peso mentale e psicologico notevole. Dietro a quei bicchieri che ti trovi di fronte c'è la storia di un'azienda, che è spesso la storia di una famiglia e di un territorio. Basta un punteggio finale deciso male per pregiudicare un lavoro di mesi. E considerate che io sono un astemio diventato degustatore professionista, passo dopo passo. Un continuo allenamento. Ma il peso del singolo calice su cui decidere, anno dopo anno, diventava sempre più difficile da reggere".
Nel tuo libro, nella sezione sulle incredibili storie legate al vino, scrivi: "Oggi tutti i vini sono buoni? Non è così...in giro c'è molta più robaccia di quanta se ne possa immaginare...la qualità media non sta migliorando, può darsi che il vertice della piramide si stia innalzando, la base però è sempre più distaccata, formata da un numero incalcolabile di prodotti mediocri". Mica male, come chiarimento.
"Ecco perché, per cercare di fare un'analisi degustativa più completa possibile, qui in Italia si usa il metodo della squadra. E' dal confronto fra i degustatori che nasce il giudizio finale. Cosa diversa da ciò che fanno gli americani, per i quali esiste l'uomo solo al comando ed è un'unica persona a sobbarcarsi tutto quel lavoro. Ma c'è un capitolo di Stappato che ho intitolato apposta Critica enologica tra meriti storici e disastri che è una piccola storia di questa attività. I meriti li individuo soprattutto nel primo periodo, a lungo andare altri fattori sono entrati in ballo e il volume di prodotti da giudicare era tale da mettere a dura prova l'obiettività del giudizio finale".
Descrivi anche il tuo rito di ingresso nel mondo dello Slow Food. Tre tappe: canto delle uova, fiera del bue grasso di Carrù e la Ferìa del toro a Pamplona. Perché proprio queste tre?
"Perché erano tre appuntamenti a cui era particolarmente affezionato il presidente di Slow Food, Carlo "Carlìn" Petrini. Il canto delle uova è un rito primaverile di iniziazione agricola molto sentito nelle Langhe e nel Monferrato. I produttori di vino ce l'hanno davvero a cuore. Era bellissimo girare di notte di cascina in cantina e capire la storia di un territorio attraverso i suoi sapori. La fiera di Carrù è una tradizione legata alla stagione in cui il Piemonte era caratterizzato dall'allevamento di questo particolare bovino, punteggiato dalla viticolture del Barolo, ed è ancora oggi uno degli ultimi eventi importanti di questo genere. Quanto alla festa del toro di Pamplona, Petrini ama molto la cucina e i riti enogastronomici spagnoli. In quel luogo dei Paesi Baschi c'è una tradizione culinaria molto precisa e uno dei migliori chef europei. Ancora una volta: rimandi letterari alla Hemingway, percorso di arricchimento culturale attraverso i sapori, e la conferma di quanto sia bello leggere l'anima di un territorio attraverso i sapori".
Il mito del vino barricato, cioè affinato in botte piccola di rovere francese: davvero la barrique è qualcosa che aggiunge qualità al prodotto finale, o si tratta di marketing e moda?
"Ti direi nì, e non è una risposta salomonica. La barrique è uno strumento da cantina e si usa diffusamente. Tutti i più grandi vini del mondo si affinano nelle botticelle di rovere e per un periodo il giudizio di Slow Food considerava fondamentale questa parte della lavorazione. Ma è anche vero che quando è partita la tendenza abbiamo cominciato ad usarla anche troppo, senza capirne bene tutte le implicazioni. Da lì, tutta una serie di storture di cui parlo nel mio libro".
Aiutiamo i meno esperti ma comunque curiosi a capire, al gusto, quando la barrique è stata usate male o troppo nell'affinare il vino che arriva nel bicchiere?
"Il sapore dell'uva viene coperto dal sentore del legno. Allora si sente l'odore di segatura, di compensato mentre assaggi, e al terzo o quarto sorso la cosa è scoperta e poco sopportabile. Ci sono vitigni che reggono bene l'affinamento in botte, vedi il Nebbiolo, il Sangiovese, l'Aglianico, ma altri vitigni rossi e soprattutto bianchi non lo sopportano. Quando il ragionamento è stato: siccome i grandi vini sono esaltati dalla barrique allora usiamola per tutti gli altri, lì si è innescata una deriva. E' cominciata quella che io chiamo l'Ikea della barrique. E alcuni vini ne sono rimasti rovinati".
Ormai viene coltivato ovunque e venduto ampiamente in tutto il mondo: per quanto tempo ancora dovremo bere Cabernet Sauvignon? Il suo abuso sta appiattendo tutto il resto. E' ovunque.
"Come vino da esportazione è davvero dappertutto, hai ragione. Il motivo è che si coltiva facilmente e viene su senza tanti problemi, e dà vini semplici e facilmente apprezzabili. Gli americani della Napa Valley lo sanno bene, per dirne una. Ci metto dentro anche il Merlot, che ormai taglia insieme al Cabernet moltissimi vini anche di pregio. Non so dire quando quest'onda comincerà a decrescere, però in Italia per fortuna la cultura enologica sta crescendo rapidamente e stiamo imparando a scoprire e apprezzare i vitigni autoctoni. Dal Nebbiolo al Carignano".
La mia domanda precedente nasceva anche da esperienza personale: mi è capitato di mangiare da uno chef stellato e di assaggiare del Carignano di cui faticavo a riconoscere il gusto. E' stato il sommelier a spiegarmi che quello era il vero gusto di quel vitigno, ma che spesso capita che venga tagliato col Cabernet ed è quel mix di sapori che alla fine viene ricordato.
"E' una gran cosa che ristoranti di pregio facciano scoprire le vere caratteristiche dei vitigni tipici. Se no tanto vale tappezzare il mondo di Cabernet e Merlot, cosa che non mi auguro proprio".
Avanti tutta con gli sterotipi: vini del Sud robusti e corposi, vini del Nord leggeri e beverini. Nel tuo libro scrivi chiaramente: non è così.
"Altro mito da sfatare una volta per tutte. Come la storia secondo cui i vini potenti del Sud verrebbero usati per tagliare e insaporire quelli del Nord. Non è vero, a Settentrione abbiamo vitigni che fanno la loro parte in modo egregio, basta bere un Amarone della Valpolicella per rendersi conti che scuri corposi ne esistono eccome, e senza scendere fino a Napoli o Palermo. Questo tipo di impostazione poteva valere per un certo periodo, ma il cambiamento del microclima e il maggiore sapere tecnologico dei produttori ha modificato lo scenario".
Torniamo a casa e alle pose chic, magari quando si invitano amici a cena. Tu scrivi dell'inutilità del decanter, quel simpatico boccione di cristallo in cui versare il vino dopo aver stappato la bottiglia, e prima di servirlo nei bicchieri.
"Sono sempre rimasto perplesso da questa ritualità degli oggetti legata al marketing del vino. Se vogliamo bere una bottiglia e apprezzare tutte le sfumature del vino che abbiamo scelto, basta stappare mezz'ora prima del servizio. Il giro dei contenitori è assolutamente superfluo. Pura, pomposa scena. Se ne può fare volentieri a meno. Se nei ristoranti vedete che lo fanno, è per coreografia. Niente di necessario".
Solfiti. I responsabili di molti attacchi al vino di produzione industriale, anche quello di gran pregio, e della teoria "ma tanto quello fatto in casa è sempre il migliore". C'è del vero o siamo dalle parti della teoria sulle scie chimiche che ci avvelenano la salute e il clima?
"I solfiti non fanno male a nessuno. E' un conservante naturale del vino e permette che resti integro più a lungo. L'importante è non superare una certa soglia di solfiti o di numero di bicchieri bevuti. Perché allora parte la caratteristica emicrania. Piano con i facili allarmismi, dunque".
E perché molte persone si lamentano della testa che gira soprattutto dopo aver bevuto i bianchi?
"Perché per via della tipologia delle uve usate, e in questo caso i solfiti si usano maggiormente. Ecco perché i bianchi fanno girare di più la testa rispetto ai vini scuri".
Vino e marketing: è anche una storia di slogan furbi. Qual è la trovata che di recente ha funzionato a livello commerciale ma rispetto a cui bisogna stare particolarmente attenti?
"Così come quindici anni fa dominava la moda della barrique, ora dire bio suona come valore aggiunto perché consente di alzare il prezzo di vendita finale. Quindi, vai col biologico e col biodinamico. Il che non vuole affatto dire che quel vino sia più buono. Attenzione, non parlo della cosa in sé ma dell'abuso che se ne fa, sia chiaro".
Qualche settimana fa la zona del Prosecco veneto è diventata patrimonio dell'Umanità certificato dall'Unesco. Ma se da una parte si festeggia un'eccellenza italiana in tutto il mondo, dall'altra residenti nelle zone delle vigne e ambientalisti protestano per l'uso massiccio di pesticidi e per il consumo di terra allarmante, dato che la domanda è enorme. Allo stesso tempo esistono produttori che stanno usando tecniche di coltura meno traumatiche per il territorio su cui hanno impatto. A che punto siamo su questo fronte?
"Le zone ad alta concentrazione viticola devono reggere una produzione altissima, parliamo di centinaia di milioni di bottiglie. Perciò si interviene con le cure, i trattamenti del territorio, non si possono aspettare i capricci della natura. Però l'arrivo dell'elicottero che arriva sul campo a irrorare i terreni a poca distanza dai centri abitati continua a destare preoccupazioni. Ben venga quindi chi, a Conegliano e in Valdobbiadene, prova a riequilibrare l'impatto ambientale con tecniche meno "chimiche" ed intensive. E' uno scenario interessante perché c'è un equilibrio da trovare e non sarà facile. Ma questo vale anche per il vino che si produce nelle mie Langhe, in Toscana e in altre zone d'eccellenza".
A proposito di eccellenze: qua e là nel libro meni mazzate su marchi importanti ma che hanno avuto momenti critici, come il Brunello di Montalcino. Se il mercato chiama si viene sottoposti a pressioni ed è difficile essere all'altezza del proprio nome. Guardando ai grandi vini italiani oggi, la tendenza è a migliorare o ad andare in sofferenza?
"Mi pare che ci si stia assestando in senso positivo. Il Brunello ha avuto anni difficili. Poi ci si è dati regole più stringenti: meno prezzi folli, il numero di bottiglie deve essere quello e non andare oltre perché se no la vinificazione diventa insostenibile. Ma i problemi del vino in Italia restano, rimbalzano da un grande marchio all'altro, hanno interessato i vini dell'Oltrepò, lo stesso Prosecco. Non si può rincorrere il mercato e andare di fretta. Le grandi denominazioni sono a posto, chi ha difficoltà sono realtà più contenute, guardo al Barolo nel mio Piemonte, il cui successo ha portato a piantare l'uva Nebbiolo ovunque a scapito di altri vitigni, e questo vuol dire trasformare la storia di un territorio. La globalizzazione del vino è preoccupante perché crea uniformità di cultura, di sapori, di aspetto finale della terra e del paesaggio su cui si opera. Se è vero che il Cannonau è un vino sardo richiesto un po' dappertutto, perché dovrei avere problemi a trovare un buon Bovale? Ecco un vitigno che dopo anni d'ombra sta ricevendo degna considerazione".
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