Il viadotto di Ponte Presale, costruzione imponente… manutenzione urgente

La storia dei quasi 500 metri di strada 258 “Marecchiese” sospesi nel vuoto
Inutile negarlo: la tragedia dello scorso 14 agosto a Genova ha scosso tutta l’opinione pubblica italiana. Le 43 vittime innocenti hanno pagato una situazione che già si era presentata nella sua gravità in altre zone d’Italia: le dimensioni erano meno amplificate, ma il “peccato originale” era lo stesso. Certamente, quando di mezzo ci sono tanti morti è chiaro che la risonanza sia inevitabilmente maggiore; anche senza vittime, tuttavia, non esiste che un ponte debba crollare e non esiste che chiunque debba essere teoricamente a rischio. I morti avrebbero potuto essere di meno come di più: hanno avuto la sola sfortuna di transitare sul posto sbagliato nel momento sbagliato. E possibile andare avanti così? È possibile che si debba scommettere sulla sicurezza? E quando le strutture non sono quelle delle autostrade? L’inchiesta specifica che abbiamo realizzato si concentra sul ponte che attraversa il fiume Presale all’altezza della località che porta lo stesso nome: vicinissima a Badia Tedalda, ma nel Comune di Sestino (a 17 chilometri dal capoluogo) e lungo la strada 258 “Marecchiese”. Un’opera infrastrutturale di eccellente impatto architettonico, che salta agli occhi anche a distanza di decenni, nonostante la via più breve (a livello di tempo) per arrivare all’Adriatico sia oggi un’altra e quindi il traffico vacanziero risulti sensibilmente diminuito. Un ponte che senza dubbio si sorbisce meno camion (magari più motociclette) rispetto a quelli della E45: ciò contribuisce a tenerlo di meno sotto pressione, anche se non cambia la sostanza delle cose. Il ponte sul Presale ha anch’esso i suoi anni e, come tale, non può e non deve andare in preda alla negligenza, né essere oggetto di un controllo a vista, perché gli enti competenti sono a corto di soldi.
CAPOLAVORO DI INGEGNERIA PER QUEI TEMPI
SESTINO – Il ponte o viadotto Presale, a Sestino, è conosciuto dalla gente del posto come “Ponte Archi”, appellativo dato in memoria di Archimede Angeli (noto cantoniere Anas), che durante i mesi invernali usciva con il carretto a piedi pieno di graniglia e mai con il sale, urlando: “Distrugge il manufatto!”. E’ posizionato al ventottesimo chilometro della Strada Regionale 258 Marecchiese, che collega Sansepolcro con Rimini. I lavori per la costruzione sono iniziati alla fine degli anni ‘60 per terminare nei primi anni ’70, unendo due sponde: Caviano e Villarosa. Il vecchio tragitto attraversava il centro di Ponte Presale (frazione del Comune di Sestino, che oggi rimane sotto), tra curve strette e salite fino a “Cima Alberini”. Era difficoltoso da percorrere, specialmente nei mesi invernali, quando il ghiaccio e la neve mettevano in seria difficoltà i mezzi in transito. Finalmente, anche sotto la spinta della popolazione, prende il via l’ardito progetto per l’infrastruttura. Le ditte che hanno realizzato l’opera sono due: quella dei fratelli Mancini, con sede in provincia di Perugia e la “Dalmine Innocenti” di Brescia. Il viadotto è lungo in totale 450 metri, largo dieci e poggia su undici piloni in cemento armato; le pile sono alte fino a 35-40 metri e fanno subito pensare alla fin troppo conosciuta E45, soprattutto nel tratto che attraversa l’Appennino tosco-romagnolo. I pozzi, scavati con mezzi appropriati, sono profondi alcune decine di metri, realizzati in cemento armato, dove sopra è stata alzata la pila a supporto della carreggiata con doppia corsia di marcia. Le cinque travi che formano il piano viabile sono state cementate sul posto e messe in opera con appoggi del tipo “fisso”. Per il completamento del piano della strada, vengono previste solette armate in calcestruzzo e il fine travi collegato con giunti. Il sistema di costruzione è innovativo per quel tempo; le armature impiegate sono formate da tubi innocenti, facili da manovrare e montate manualmente tra loro, imbracate da speciali morsetti uno sopra l’altro. L'unico aiuto sostanziale al lavoro manuale degli operai sono state le rivoltelle ad aria compressa: facile immaginare la complessità nell’esecuzione dei lavori. La realizzazione del ponte è stata un’impresa ardua, insolita, non priva di rischi e condotta a termine con successo: si potrebbe definire un capolavoro di ingegneria che in quegli anni non si era mai visto. La moderna progettazione ha prestato cura ai dettagli geometrici strutturali, la cui tipologia esprimeva l’evoluzione ed era proiettata ad auspicare il futuro. Terminati i lavori, si procede direttamente con il collaudo da parte dei tecnici competenti; collaudo che consiste nel far transitare a bassa velocità i mezzi pesanti, gli autobus e le auto. In molti possono pensare che nulla sia così grandioso, se paragonato alle costruzioni attuali, ma - riletto sulle tecniche costruttive di quel periodo, quando le armature e le impalcature erano carenti – possiamo definirlo come una grande opera. Si tratta di un passaggio epocale, che indica l’importanza strategica di un’area fino ad allora marginale. Nell'ottica della costruzione, si uniscono le valli della Toscana e delle Marche (oggi Romagna) attraverso la dorsale appenninica, agevolandone così il collegamento. Il nuovo progetto di trasporto motorizzato, reso necessario anche dalle inadeguatezze della vecchia rete stradale e dai danni creatisi a seguito della seconda Guerra Mondiale, aveva risolto il problema. Quando viene inaugurato, il viadotto è salutato come una sorta di miracolo tecnico. Al momento dell’edificazione, forse non vi era l’esigenza di avere piste ciclabile o pedonali; oggi sarebbe necessaria e molti cittadini la chiedono per rendere migliore il percorso. Nessun gesto eclatante: la struttura ascolta silenziosa l’interesse della gente, favorendo un simbolo forte che va a creare una cucitura fra la storia del luogo e la gente che transita. Il territorio dove si estende il viadotto è pieno di alberi e sullo sfondo si vedono le montagne dell’Alpe della Luna: tutto questo crea uno scenario affascinante e selvaggio, che non sembra essere mutato nel corso del tempo. Fotografare il ponte è bello, affascinante per chi arriva da fuori, ma alla fine solamente la prima volta che lo percorre: per gli abitanti della zona talvolta pesa come un macigno; vi transitano sopra privi di ogni tipo di emozione, ma starci sotto fa ancora più impressione, soprattutto in questo momento. Ricordiamoci tuttavia una cosa: i ponti sono la storia del nostro Paese!
NESSUNA MANUTENZIONE PER CINQUANT’ANNI
E’ senza ombra di dubbio la più importante opera in cemento armato presente in Valtiberina, seppure ci si venga a trovare davvero nell’ultimo lembo di Toscana. Eretta sul fosso del Presale – proprio dal fiume prende il nome – presenta delle ferite notevoli; è malata, seppure versi in una situazione (almeno per il momento) ancora accettabile, tanto da non spingere i tecnici a una chiusura. C’è però un certo allarmismo da parte della popolazione, che sta con le orecchie dritte e ben attente, soprattutto dopo i terribili fatti di Genova, avvenuti alla vigilia del Ferragosto. La fragilità e le difficoltà del nostro territorio vanno tenute in considerazione: all’epoca, le possibilità di calcolo numerico al computer non erano possibili, pertanto è facile ipotizzare che siano stati elaborati dati semplici, ma comunque piuttosto precisi. La prevenzione è stata trascurata: controlli e verifiche di risanamento non sono mai state fatte; o comunque, sono state eseguite in maniera superficiale. La struttura è stata oggetto di cedimenti nel corso del tempo e la poca manutenzione nel corso di tutti questi anni non ha mai garantito la sicurezza e la stabilità necessarie. Ci sono infiltrazioni di acqua un po’ ovunque: i piloni manifestano segni di evidente degrado; i calcinacci cadono e si presentano ampie zone di sfaldatura, dalle quali escono tondini di ferro arrugginiti in maniera preoccupante. Le armature che sporgono dai piloni di sostegno, l’incuria e il maltempo riducono la portata e si rischia un forte indebolimento da un momento all’altro. Non è detto che i guasti evidenti siano inequivocabili sintomi di malessere strutturale, ma il cattivo stato non appare di certo rassicurante e fa presagire il peggio. Tutto ciò è ovviamente accentuato durante i mesi invernali, poiché il viadotto di Ponte Presale si trova in una zona soggetta ad abbondanti nevicate, oltre che alla successiva formazione di ghiaccio con il brusco abbassamento delle temperature. Sono queste le condizioni in cui versa: ciò che rammarica di più è l’assenza di interventi in maniera adeguata, per cui sarebbe necessario un piano di manutenzione ben preciso. Un'azione anche celere, onde evitare peggiori conseguenze dovute ai fenomeni corrosivi. Mancherebbero anche le risorse da destinare a questa tipologia di intervento e allora, agli utenti della strada, non resta da fare altro che sperare: sperare che i tecnici e gli ingegneri svolgano le giuste verifiche, dando rassicurazioni certe. Il problema è che l’opera esistente è invecchiata di pari passo col decadimento del calcestruzzo.
“ABBIAMO LAVORATO IN QUEL PONTE, VI RACCONTIAMO LA VERA STORIA”: LE TESTIMONIANZE
Albo Pari, sposato con Luigina Bragagni è padre di due figli, Sara ed Enzo, oltre che nonno di quattro nipotini; vive nella piccola frazione di Caprile a Badia Tedalda e racconta la sua esperienza quando era dipendente della ditta “fratelli Mancini”. “Ero poco più che adolescente quando iniziai a lavorare alla realizzazione del viadotto Presale: avevo sedici anni e per raggiungere il luogo utilizzavo un motorino di piccola cilindrata; sul manubrio, un parabrezza per proteggere il viso in caso di pioggia. In cantiere ho imparato il mestiere, svolgendo varie mansioni: carpentiere, ferraiolo e muratore. Mi inerpicavo attraverso le impalcature, raggiungendo gli ultimi piani del ponteggio. Era così: dovevi abituarti a qualsiasi tipo di mansione per farti prendere di buon occhio dal caposquadra; non c’era alternativa, altrimenti il giorno dopo saresti rimasto a casa. La giornata di lavoro era faticosa - racconta Albo Pari – e per lo più ero impegnato nella preparazione delle casseforme in legno, tali da renderle adatte per contenere il getto di calcestruzzo in fase fluida. La squadra lavorava dentro la cassaforma, compatta, mediante strumenti vibranti da annegare nel cemento. Superato il tempo di maturazione, si procedeva alla rimozione con un'operazione detta “disarmo”. In breve tempo, si imparava a conoscere le nozioni basilari dell’edilizia e le caratteristiche dei materiali impiegati. Le competenze acquisite aiutano a lavorare con tranquillità: è importante familiarizzare con i materiali che siano a posto e che rispecchino i parametri, per non mettere a rischio di eventuali incidenti il cantiere”. E poi la testimonianza di Augusto Lazzerini, il quale è nato e vive ancora a Badia Tedalda “Ero stato assunto alla ditta Dalmine di Brescia con la mansione di operaio qualificato – ricorda – e mi recavo in cantiere al mattino per tornare a casa la sera tardi. Pala e piccone, piccone e pala: era davvero dura. Non era un periodo facile e la disoccupazione era alta: per lavorare in questi luoghi devi emigrare. Essere occupati a pochi passi da casa dava molto sollievo e la ditta bresciana era una garanzia: un grande polmone economico per tutti, un motore in crescita sociale di straordinaria portata. Pensate un po’, con il primo salario acquistai subito l’auto nuova”.
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