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Pino Fabbriciani per tutti "Tino" racconta la storia della miniera di carbone a Citerna

Era attiva tra gli anni '30 e '50 e ci lavoravano una 30ina di persone

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“Sì, proprio lì c’era una miniera. Ero piccolo, ma ricordo benissimo il trenino che per noi era quasi un gioco, ma anche il lavoro quotidiano di tante persone”. Le parole sono quelle di Pino Fabbriciani, per tutti ‘Tino’ forse a seguito di un errore di trascrizione all’anagrafe, che abita nella popolosa frazione di Pistrino nel Comune di Citerna, proprio a due passi dallo stadio intitolato al Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Chiamarlo sogno non è proprio la giusta definizione, bensì è più un desiderio di raccontare quella miniera che in pochi ricordano ma soprattutto lasciare una traccia scritta alle future generazioni. Oggi chiaramente non si vede più niente, la vegetazione ha coperto tutto: ci sono campi coltivati e le abitazioni che un tempo erano riservate agli operai, basse e di colore rosso, oggi sono delle autentiche villette private. Una miniera importante, ma piccola al tempo stesso: non aveva un nome proprio ed è stata coltivata tra gli anni ’30 e ’50 del secolo scorso. “Fino al 1949, già nel ’50 era stata dismessa”: non ha dubbi il signor Fabbriciani che, seppure vissuta in giovane età, ha ancora in mente l’immagine di Pistrino, di Citerna e della miniera di quel tempo. Ci porta anche sul posto, siamo tra la zona industriale e la direttrice del Vingone (strada che collega Monterchi con Città di Castello), seppure l’unico riferimento ancora oggi presente è una cabina dell’Enel che una volta costituiva, probabilmente, pure l’ingresso principale. La presenza di miniere nell’Alta Valle del Tevere non è certamente nuova (si parla anche di quella di San Martino in Campo, oppure un certo Galparino entrambe nel territorio tifernate), non si hanno molti documenti sulla materia bensì prevale il racconto di persone che la miniera in qualche modo l’hanno vissuta; così come Pino Fabbriciani, ops Tino, che con ben 85 primavere alle spalle ha affidato alle pagine dell’Eco del Tevere – assiduo lettore - il suo racconto.

L’INGRESSO, IL TRENINO E POCO DISTANTE IL ‘TOMBOLO’  

“Era un’area vasta per quel tempo e gli edifici presenti in zona erano poco più di una manciata, ma se la proiettiamo ai giorni nostri parliamo di una miniera piccola – puntualizza Fabbriciani – piccola sì, ma importante per quel tempo dal punto di vista economico e occupazionale. Ci lavoravano tante persone, sicuramente una 30ina e anche delle donne (almeno in 7, forse addirittura 8): operai che venivano pure da Città di Castello e dal versante toscano; una volta terminato il turno tornavano a casa e spesso erano impegnati anche in altri lavori. In uno degli ingressi c’era la scritta a caratteri cubitali ‘Carboni Italiani’ che padroneggiava, la quale non indicava tanto il nome della società bensì la specificità del prodotto”. Un passo alla volta e cerchiamo di andare per ordine. Cosa veniva estratto e in che punto del territorio di Citerna ci troviamo? “La miniera si trovava nell’area compresa tra le località Marinello, Carsuga, Fontepeglia e il Vingone: tra la Sp100 e l’attuale via Pianali. Oggi tutto è stato modificato, seppure per dare un’idea la zona era quella. Dalla miniera veniva estratta principalmente lignite: uscivano dei tronchi che per metà, appunto, erano formati da lignite mentre l’altra parte era carbone. La ramaglia, invece, prendeva un’altra direzione e veniva trasformata in carbonella per altri utilizzi. Quattro o cinque donne, durante il proprio turno di lavoro, avevano invece il compito di vagliare il prodotto e imballarlo cosicché una volta alla settimana di media passava un camion per il ritiro della merce da trasportare in città; andava in città perché a quel tempo, ancora, non vi erano ovunque gli allacci del metano. Ben visibili, invece, erano tre distinti cumuli: uno era lignite pura, l’altro carbone mentre l’ultimo semplicemente terra che assumeva una colorazione bluastra simile all’argilla”. Il signor Fabbriciani prosegue poi nel suo racconto. “Ripeto, tutto sommato era una miniera piccola formata da un tunnel lungo circa 700-800 metri, sono certo che non arrivava comunque ad un chilometro; quattro erano gli accessi dove al centro scorreva un piccolo trenino su rotaie realizzate con delle verghe di ferro; era composto da pochi vagoni, anch’essi di metallo e utilizzati per portare alla luce del sole il materiale estratto. In una delle uscite della miniera vi erano invece le case degli operai, colorate e tutte ad un piano utilizzate principalmente da coloro che venivano a lavorare da più lontano: sono ancora ben visibili lungo la strada, sul lato destro andando verso la strada del Vingone, seppure oggi sono state completamente trasformate in residenze private. Nel giro di poco tempo, però, interruppero la coltivazione della miniera e la conseguente chiusura: rimase in attività pochi anni, seppure i motivi dello stop sono sconosciuti. La terra tolta negli anni successivi venne completamente spianata e con il tempo la vegetazione ha preso il sopravvento, occludendo di fatto i quattro ingressi”. Vero che oggi sono chiusi, però, non è da escludere che il tunnel possa essere ancora presente, forse solo per piccoli tratti: ‘Tino’ Fabbriciani confessa che ancora oggi sarebbe in grado di riconoscere i punti principali del sito. “Gli ingressi venivano chiamati ascenderie, mentre per noi bambini quel trenino era davvero un momento di grande divertimento, ovviamente quelle poche volte che potevamo accedere fuori orario: la miniera chiudeva alle 5 in punto del pomeriggio, seppure era sempre vigilata da un guardiano anche la notte per evitare sgradevoli intrusioni. Insomma, un giretto quando era possibile lo strappavamo sempre”. Se questa era la miniera di Citerna, miniera intesa come luogo sotterraneo di estrazioni di un qualunque tipo di materiale, il signor Fabbriciani ha pure altro da raccontare. “Poco più avanti in linea d’aria, invece, c’era il tombolo”. Di cosa si tratta nello specifico? “Il tombolo non era altro che un pozzo di estrazione da cui fuoriusciva una miscela di gas che, trasportato con delle tubazioni accanto al fossato Rio e poi sul torrente Sovara, veniva stoccato in un capannone di legno a Pistrino, non troppo distante da dove oggi è presente l’edificio che ospita le scuole medie di Citerna. Da qui, ogni tanto, ricordo che partiva un camion, probabilmente abbandonato in zona dopo la guerra, che portava le bombole contenenti quel gas verso altre destinazioni. Erano vicini, ma parliamo comunque di due siti e attività differenti: da una parte quella mineraria e dall’altra quella estrattiva”. Una miscela di gas, quindi, che potrebbe essere molto simile – se non addirittura la stessa – del giacimento presente e noto sotto l’Alta Valle del Tevere con grande concentrazione nella zona dell’invaso di Montedoglio.

IN UMBRIA 34 SITI DI MINERALI DI LIGNITE XILOIDE

Il poco è meglio del niente recita un noto proverbio e avvalendoci del supporto di geologi esperti qualcosa in più è sicuramente emerso. I giacimenti lignitiferi dell’Umbria si sono formati in ambienti lacustri plio-pleistocenici, tra cui il più importante è senza dubbio l’antico ‘bacino tiberino’ che occupava una vasta porzione dell’Italia centrale: in particolare la zona compresa tra Sansepolcro e Terni, i due punti estremi; il primo a nord, l’altro a sud. Nei pressi di Perugia il lago si divideva in due rami, separati dal promontorio della catena martana. Il lago, quindi, occupava un’ampia depressione intramontana lunga circa 120 chilometri e larga 30. Sta di fatto che un insieme di elementi e situazioni climatiche ha consentito la formazione della lignite, a carattere legnoso o torboso-scistoso, per lo più incastrata nei livelli argillosi con una potenza dei banchi variabile da 1 fino a 10 metri. È il caso anche della miniera di Citerna presente in località Marinello, riportata anche in alcuni documenti della Regione Umbria. L’accumulo era costituito per uno spessore da uno fino a quattro metri, da argille limose e limi argillosi in cui era dispersa una notevole quantità di resti vegetali che conferivano all’accumulo e all’affioramento una colorazione grigio-scura. L’estrazione della lignite xiloide in Umbria ha rappresentato dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra uno dei settori industriali più importanti della Regione, che mediamente contribuiva per il 30% circa alla produzione nazionale di combustibili fossili. Tra i giacimenti ne spiccava uno anche nella zona di Caiperino, vicino a Città di Castello ma non era probabilmente il solo. Inoltre, durante gli anni del primo conflitto mondiale, con tanto di Decreto luogotenenziale del 7 gennaio 1917, fu istituito il Comitato per i Combustibili Nazionali il cui compito era proprio quello di snellire le pratiche per la ricerca e lo sfruttamento dei combustibili fossili. Quella delle miniere, e quindi di conseguenza il minatore, era una professione molto importante oltre che essere fonte di economia. Basti pensare che nel periodo autarchico, quello compreso tra il 1936 e la Seconda Guerra Mondiale, le miniere di lignite xiloide umbre funzionarono a pieno regime con oltre 10.000 addetti, ma l’escavazione sempre più spinta della lignite per aumentare la produzione causò un forte sfruttamento della manodopera e un aumento degli infortuni. Le tecniche di coltivazione erano variegate seppure, una volta accertata la consistenza del banco di lignite, si procedeva con i lavori di tracciamento delle gallerie in pendenza e pozzi verticali, fino a creare una rete che in gergo veniva chiamata “quartiere” o “massiccio”. Terminati i lavori preparatori si passava poi alla coltivazione vera e propria della miniera, ovvero l’estrazione del minerale secondo vari metodi in funzione di due elementi: la profondità e la pendenza del banco. 

PROFESSIONE MINATORE

Minatore, miniera. Il minatore, quindi, è colui che lavora in maniera: fin qui tutto chiaro, ma l’obiettivo è capire qualcosa di più.  La Treccani, infatti, indica “chi lavora come operaio nelle miniere, provvedendo sia al disgaggio e all’abbattimento dei minerali, sia a operazioni sussidiarie, quali la preparazione dei fornelli da mina (perforatore), il caricamento e il brillamento delle mine stesse (carichino e fuochino), la messa in opera delle armature delle gallerie (armatore), le manovre nelle stazioni dei pozzi di estrazione (ingabbiatore)”. Una professione, come tante altre, che nel tempo si è evoluta inserendo da una parte la tecnologia mentre dall’altra un grado maggiore di sicurezza. Una delle frasi più note, talvolta ripetuta anche ai giorni nostri, è “la durissima vita del minatore”. In effetti, almeno un tempo, era così con gli operai di miniera divisi in due categorie: i minatori e i trascinatori. Con esplosivo, pale e picconi i minatori da sotto terra estraevano il materiale per poi stivarlo su carrelli di legno e spinto dai trascinatori, a forza di braccia, fino al pozzo, da dove era issato con carrucola e portato all’esterno. Quello del minatore era quindi un lavoro sporco, erano quasi tutti uomini e nel caso le donne – talvolta anche qualche bambino, essendo piccoli di statura – avevano il solo ruolo di trascinatori. Minatori che spesso contraevano malattie, in base anche al tipo di estrazione che veniva effettuata, oppure problemi di salute tra cui la cecità lavorando per tante ore in ambienti privi di luce naturale. Ancora oggi quella del minatore è una professione vera e propria presente in Italia, con siti un po’ a macchia di leopardo.   

Notizia tratta dal periodico l'Eco del Tevere
© Riproduzione riservata
23/07/2024 09:51:26


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