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Settant’anni fa la tragedia di Superga con la tragedia del Grande Torino

Il ricordo indelebile di una squadra che non è più esistita

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Vittorio Pozzo arrivò su in mezzo alla nebbia, incrociando la gente che piangeva. Il muratore Amilcare Rocco, che abitava a un tiro di schioppo dalla Basilica di Superga, aveva sentito un rombo che diventava sempre più forte, pochi minuti dopo le 17, e in quel fragore gli era passato un lampo sopra la testa. Quando era sceso in strada, aveva visto i contadini che correvano verso quel rumore e avvicinandosi assieme a loro, dentro al muro di nebbia che avvolgeva le case e i campi, cominciò a vedere una colonna di fumo nero che sembrava levarsi dal profilo di una carlinga. Il cappellano don Tancredi Ricca era già lì e faceva segni di croce tra i resti di corpi umani sparsi tra lamiere storte e arroventate.

«E’ l’aereo del Torino!»

L’aereo si era schiantato contro il bastione che delimitava la basilica. Nessuno aveva ancora capito chi fossero le vittime. Poi, uno dei contadini scorse due maglie di colore granata con lo scudetto tricolore. «E’ il Torino!», si mise a gridare. «E’ l’aereo del Torino!». Ci aveva messo un attimo la voce a correre, e si era mossa una processione di gente che urlava e piangeva. Vittorio Pozzo si era precipitato su da solo. Li conosceva bene quei ragazzi. Nell’ultima partita della sua Nazionale ne aveva schierati 10 su 11, solo il portiere era della Juventus, Sentimenti IV, ma tutti gli altri erano i giocatori del Torino: non esisteva una squadra così, e forse in Italia non ne è mai esistita una uguale. Nel mondo, l’Ajax di Cruiff, magari. Forza e spettacolo, ardore e tecnica. Pozzo aveva contribuito molto a crearla, perché il grande presidente di quel Toro, Ferruccio Novo, all’inizio si era affidato a lui, prima di litigarci.

La gente piangeva in ginocchio

Nella guazza grigia di quel tramonto, tra i focolai di incendio che brillavano dalla carcassa dell’aereo e la gente che piangeva in ginocchio, il maresciallo dei carabinieri gli si era accostato prendendo appunti su un taccuino: «Lei li conosce tutti», disse. Pozzo avanzò piano e non si ricordò mai se in quel momento piangeva o no. Dopo sì, se lo ricordò, pianse e non smise più. «Su un lato del terrazzo qualcuno aveva già disposto 4 o 5 cadaveri. Erano i corpi non martoriati di Loik, Ballarin, Castigliano... Li riconobbi e li nominai. Fu allora, mentre rovistavo fra tutti quei resti che giacevano al suolo, che un uomo più alto di me e avvolto in un impermeabile mi mise una mano sulla spalla e mi disse in inglese: "Your boys". Mi voltai. Era John Hansen, della Juventus, accorso fin lassù». Per quella tragedia piansero tutti, senza distinzione di fede e di colori. Ai funerali accorsero addirittura un milione di persone, cioè molti più di tutta Torino, che all’anagrafe nel 1949 contava 718.697 abitanti. Di quegli uomini, risparmiati dalla guerra e massacrati dal destino, è rimasta la leggenda, il ricordo indelebile e inarrivabile di una squadra che non è più esistita.

Il  mito

Da allora quando vince il Toro è diverso da tutti. Commuove. Non gioisce. E’ come uno che vede il figlio che torna dalla guerra. E’ ferito, però è ancora vivo. Il fatto è che quella tragedia ha fissato un mito. Ma tracciandone i contorni, ha cancellato il suo futuro, ne ha impedito l’esistenza. Ferruccio Novo, quando prese la presidenza del Torino nel 1939, le azzeccò tutte e costruì la squadra più forte di sempre nel giro di pochissimo tempo. Dopo Superga, non ne azzeccò più una. All’inizio aveva seguito i suggerimenti di Vittorio Pozzo. Primo acquisto, Ossola dal Varese, 18 anni, 55mila lire. Loik e Mazzola li prese nel ‘43 dal Venezia, per un milione e 200mila lire, lo stesso anno che comprò Grezar dalla Tristina. Ne prese ancora altri dopo, ma il Grande Torino era già fatto. Era così forte che gli bastavano 15 minuti per decidere la partita e seppellire gli avversari, quando Oreste Bolmida, un ferroviere che non si perdeva un solo incontro, suonava la tromba e dava la carica. Era l’unica squadra in Italia a giocare con il Sistema, schema importato dall’Arsenal, che dava più libertà di azione alla fantasia dei suoi campioni.

Il viaggio per Lisbona

Il Grande Torino fu rivoluzionario anche per questo. Lo volevano vedere all’estero. Allora non c’era la Champions. Si facevano le amichevoli. Fece una tournée in Brasile e la stampa se ne innamorò: non a caso qualche anno dopo battezzò il suo giovanissimo centravanti, José Altafini, con il soprannome di Mazzola. Così dopo una partita della Nazionale contro il Portogallo, Francisco Ferreira pregò Valentino di portare i granata a Lisbona per una amichevole. Ferreira era il capitano del Benfica e quello avrebbe dovuto essere anche il saluto ai suoi tifosi. Ferruccio Novo non ne voleva sentir parlare: ci distrae dal campionato, diceva. Ma Mazzola lo convinse: se non perdiamo con l’Inter, che è seconda in classifica, a San Siro, ci andiamo. Finì zero a zero. Inter a 5 punti, quinto scudetto consecutivo ormai in tasca a 4 giornate dalla fine.

Lo schianto

Così partirono. Erano in 31. Non partì Ferruccio Novo, perché era a letto con l’influenza. Anche Valentino Mazzola aveva l’influenza ma lui aveva dato la parola a Ferreira e non poteva mancare. Non salì sull’aereo Nicolò Carosio, bloccato dalla cresima del figlio, e pure l’ex ct della Nazionale Vittorio Pozzo (il suo posto lo prese Renato Tosatti, il padre di Giorgio, della Gazzetta del Popolo). Neanche Tommaso Maestrelli, che giocava nella Roma, e che era stato invitato direttamente da Valentino Mazzola, riuscì a partire perché non fece in tempo a rinnovare il passaporto. Mercoledì 4 maggio tornarono indietro. Partenza da Lisbona alle 9,40, scalo a Barcellona, e volo alle 14,50 per Torino. Il trimotore Fiat G212 risale da Savona verso il capoluogo piemontese. Pioggia e bufera di vento, tira il libeccio. Poi quando si avvicinano alla città della mole c’è un muro di nebbia. Alle 17,03 il pilota crede di avere la collina di Superga alla sua destra, quando se la vede invece sbucare davanti all’improvviso. Viaggia alla velocità di 180 chilometri all’ora e non ha più tempo nemmeno per provare una virata. L’aereo si schianta contro il terrapieno posteriore della basilica di Superga. Muoiono tutti. Al Museo del Grande Torino sono conservati alcuni resti del trimotore, un’elica, uno pneumatico e pezzi sparsi della fusoliera. Ci sono anche le valigie di Maroso, Mazzola ed Erbstein.

I figli del Grande Torino

Tanto tempo dopo, negli Anni 70 il destino concesse una tregua. Tommaso Maestrelli, che da quella sciagura si era salvato, portò la litigiosa Lazio di Chinaglia a vincere lo scudetto, giocando un calcio spumeggiante. E poi arrivò il trionfo del Toro. Una cavalcata incredibile, e la Juve rimontata sul filo della lana. «Ci parlavano sempre tutti del Grande Torino, che ci sentivamo un po’ figli suoi», disse Eraldo Pecci. «I figli minori». Quel giorno, alla fine della partita, Gigi Radice era dritto in mezzo al campo e cercava di respirare. Gli altri lo abbracciavano saltando di gioia. Dagli spalti non era sceso nessuno, non c’era stata invasione. Stavano tutti fermi lassù, ad applaudire. E piangevano. Erano qualcosa di più che felici. Erano commossi.   

di Pierangelo Sapegno

Notizia e Foto tratte da Tiscali
© Riproduzione riservata
05/05/2019 11:24:30


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