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Le spoglie di San Giovanni XXIII tornano a Bergamo. Prima tappa: il carcere

La commozione dei detenuti e degli operatori. Simboli ed esperienze umane

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«Siate contenti che io sia qui. Ho messo il mio cuore vicino al vostro. Il Papa è venuto, eccomi a voi. Che grande cosa, fratelli, il Cristianesimo! […] Sapevo che mi volevate, e anch’io vi volevo. Per questo, eccomi qui. A dirvi il cuore che ci metto, parlandovi, non ci riuscirei, ma che altro linguaggio volete che vi parli il Papa? Io metto i miei occhi nei vostri occhi: ma perché piangete? Siate contenti che io sia qui. Ho messo il mio cuore vicino al vostro. Il Papa è venuto, eccomi a voi». Era la mattina del 26 dicembre 1958, Santo Stefano, e Giovanni XXIII così si rivolgeva ai detenuti dopo aver varcato il portone del carcere di Regina Coeli - a un chilometro dal Vaticano, sulla stessa sponda del Tevere - pochi minuti dopo le 8. Nella rotonda, al centro dei quattro bracci dove stavano stipati i carcerati, un piccolo altare improvvisato e attorno, in cerchio, i funzionari insieme al vescovo di Orvieto Francesco Pieri, allora ispettore generale dei Cappellani degli Istituti di prevenzione e pena d’Italia, e al ministro della Giustizia Guido Gonella. L’istante in cui il Pontefice era apparso era sembrato lunghissimo, poi da quella marea di uomini in divisa a righe l'esplosione di un applauso interminabile. 

«Siate contenti che io sia qui. Ho messo il mio cuore vicino al vostro. Il Papa è venuto, eccomi a voi». Le stesse parole riecheggiate giovedì 24 maggio, ieri, sotto un sole potente nel piazzale del cosiddetto «passeggio» del carcere di Bergamo. Stampate sul frontespizio dell'opuscolo che ha accompagnato i riti di accoglienza dell'urna con il corpo di San Giovanni XXIII, arrivata nella casa circondariale di via Gleno attorno alle 16,30, in un altro interminabile applauso, dopo un viaggio di oltre 600 km, fra la basilica vaticana e la terra di Bergamo. Un viaggio in autostrada, dopo aver lasciato il Vaticano poco dopo le 7, dentro un furgone scuro, scortato dalla Polizia e dalla Gendarmeria vaticana e proseguito, da Paderno di Seriate, alle porte della città orobica, sopra su un pick up, l'urna collocata in modo da rendere visibile il corpo del Santo Pontefice a quanti - a migliaia - hanno fatto ala al suo passaggio: prima nel centro cittadino dove è stato accolto dalle autorità, poi, appunto, nel Carcere. 

 

È lì che l'antico rito della peregrinatio (che quanto a pontefici saliti sugli altari e ritornati provvisoriamente «a casa» ha solo i due precedenti di san Pio X nel 1960 e del beato Pio IX nel 2001), ha assunto una dimensione di grande attualità: con la presenza di un corpo santo - da guardare e dal quale sentirsi guardati; da amare e dal quale sentirsi amati - capace di far scaturire speranza in un luogo di sofferenza. Quando il portone - dopo l'ingresso del vescovo di Bergamo Francesco Beschi, accompagnato dal vicario generale monsignor Davide Pelucchi e dal segretario generale della curia monsignor Giulio Dellavite - si è spalancato del tutto e si sono palesati i lineamenti del Pontefice, si è avuta l'impressione che a essere aperta fosse una delle porte sante dell'anno della misericordia, quasi l'appendice di un Giubileo forse dimenticato troppo presto. E mentre si alzava da un coro, un inno a Papa Roncalli «pastore buono del gregge del Signore», ecco, palpabile, la commozione non solo dei detenuti, uomini e donne rigorosamente separati, quasi duecento in tutto, ma anche degli agenti di custodia, dei sottufficiali e degli ufficiali della polizia penitenziaria, degli operatori, della direttrice della struttura, Cosima Buccoliero, del cappellano, don Fausto Resmini: tutti diversamente coinvolti da tempo a preparare questo incontro, inconsueto, certo, soprattutto per i detenuti più giovani e quelli di nazionalità straniera (ben più della metà).  

 

E si sono viste anche lacrime, quasi a continuare quelle alle inferriate dei quattro piani di Regina Coeli, quel 26 dicembre del '58. Lacrime, ma anche sorrisi.  

 

Chissà. Un'iniezione di speranza per quanti - anche noi sin qui - abbiamo chiamato detenuti: ma che sono innanzitutto persone, con le loro brutte storie, i loro conti da regolare con la giustizia, le pene da scontare, ma anche il diritto a ricominciare, a immaginare un futuro diverso. Si era tolto subito lo zucchetto bianco e sembrava agitarlo in alto - in segno di festoso saluto - il Papa bergamasco a Regina Coeli: «Miei cari figlioli, miei cari fratelli, siamo nella casa del Padre anche qui. Siete contenti che io sia venuto?» aveva detto ai detenuti, sotto i flash dei fotografi. Ieri a Bergamo San Giovanni XXIII ha parlato con la sua muta presenza, ha dialogato attraverso le sue spoglie, con il suo essere lì, proprio in quel posto. Non a caso c'è chi ha dichiarato di avvertire davanti a lui una sensazione di perdono, di aver baciato l'urna di un'icona della misericordia. In una clip per «Vatican News» don Resmini ha raccontato che, nei giorni scorsi, a non pochi è stato sufficiente far scoprire scritti o discorsi di Papa Giovanni per promettere di non dimenticarlo. Anche lui, ad altre persone nella loro stessa situazione, aveva promesso con grande spontaneità, che non li avrebbe dimenticati. «...Questo incontro, siate pur sicuri, resterà profondo nella mia anima». 

 

È stato così. Nella comunione dei santi per chi crede davvero. Ma forse anche per chi, come una delle recluse che avevo alle spalle, mentre parlava il vescovo, scioglieva il suo sguardo prima un po' smarrito abbozzando respiri di sollievo. «Il primo pensiero è stato rivolto a voi che vivete la condizione penitenziaria, le vostre famiglie e chi lavora in via Gleno, quando abbiamo pensato di portare a Bergamo le spoglie di Papa Giovanni» ha detto monsignor Beschi. Aggiungendo: «Spero che il Santo Papa porti la pace nel cuore di tutti voi». E ancora: «Una pace che alimenti la speranza che anche questa pena e le altre che ci uniscono nella prova della sofferenza non siano inutili». 

 

Ed è stato così per più di un detenuto che in colonna per avvicinarsi alle spoglie del santo, dopo aver toccato l'urna, dopo un segno di Croce, dopo aver messo in una cesta un messaggio, è apparso più disteso. L' aria di sfida svanita. Germogli di redenzione? Chissà. «Sì, ce la possiamo fare...», «Possiamo ricominciare»: questo il commento di un detenuto.  

 

«Vi faccio una preghiera: la prima lettera che scriverete a casa vostra, deve portare la notizia che il Papa è venuto in mezzo a voi e che si impegna a speciali intenzioni di preghiera per ciascuno di voi, per le vostre mogli, le vostre sorelle...»: così congedandosi da Regina Coeli Papa Giovanni sessant'anni fa. «Sì nella prima lettera che manderò ai miei, lo scriverò: Papa Giovanni è venuto a trovarci», così un detenuto con cui ho commentato per alcuni minuti il significato di questo evento dentro l'avventura della peregrinatio appena iniziata. Difficile, in questo momento, per chi scrive, dimenticare il racconto di quella mattina di Santo Stefano, tante volte ascoltato dal segretario del pontefice, l'allora monsignor Loris Capovilla, poi cardinale centenario e del quale ricorre proprio il 26 maggio -domani - il secondo anniversario della morte. «Prima di congedarsi il Papa volle farsi fotografare con i detenuti. Avviandosi all’uscita, vide un uomo staccarsi dal gruppo dei reclusi raccolti attorno all’altare, guardarlo con occhi arrossati dal pianto, e cadergli ai piedi chiedendogli: “Le parole di speranza che lei ha pronunciato valgono anche per me?”. Papa Giovanni non rispose. Si chinò sull’uomo, lo sollevò, lo abbracciò e lo tenne stretto a sé». È stato a questo punto - si poteva leggere l'indomani nella cronaca di un quotidiano della capitale - «che la manifestazione ha fatto tremare i muri di Regina Coeli. Dell’atmosfera tipica del carcere non è rimasto più nulla». Per qualche ora ieri è stato così anche a Bergamo.  

 

Durante la venerazione delle reliquie, preghiera e riflessione hanno richiamato non solo le parole di San Giovanni XXIII, ma anche dei successori. Di Paolo VI a Regina Coeli il 9 aprile 1964: «Ebbene io sono venuto per accendere in ciascuno di voi una fiamma, se fosse spenta; per dire a ciascuno che voi, ripeto, avete ancora delle possibilità di bene, grandi, nuove, forse rese anche maggiori e più consistenti dalla vostra stessa sventura...». Di Giovanni Paolo II nello stesso carcere il 9 luglio 2000: «Il carcere può acquistare un tratto di umanità ed arricchirsi di una dimensione spirituale, che è importantissima per la vostra vita».  

 

Di Benedetto XVI a Casal di Marmo il 18 marzo 2007: «Carissimi quale è il segreto dell'amore, il segreto della vita? Il Vangelo ci aiuta a capire chi è veramente Dio: Egli è il Padre misericordioso che in Gesù ci ama oltre ogni misura. Gli errori che commettiamo, anche se grandi, non intaccano la fedeltà del suo amore». E ancora: «Dobbiamo capire che cosa è la libertà e cosa è solo l'apparenza di libertà». Di papa Francesco, il 10 luglio 2015 al Palmasola, in Bolivia (una specie di inferno – pure visto da chi scrive - dove gli oltre 5mila «ospiti» si autogestiscono nell'andirivieni di familiari e amici, e traffici vari): «Quello che sta davanti a voi è un uomo perdonato. Un uomo che è stato ed è salvato dai suoi molti peccati. Ed è così che mi presento. Non ho molto da darvi o offrirvi, ma quello che ho e quello che amo, sì, voglio darvelo, voglio condividerlo: Gesù Cristo, la misericordia del Padre». E ancora «Se in qualche momento ci sentiamo tristi, male, abbattuti, vi invito a guardare il volto di Gesù crocifisso. Nel suo sguardo tutti possiamo trovare posto».   

 

Come non pensare alla cripta sotto la chiesa di Santa Maria della Pace, attigua alla parrocchiale di Sotto il Monte, cuore del paese santuario a cielo aperto? «Proprio lì in una teca in cristallo sono conservati calchi della mano destra e del volto di Papa Giovanni, realizzati da Giacomo Manzù poche ore dopo che il papa era spirato il 3 giugno ’63, quando lo scultore – che aveva già ritratto il pontefice e grazie a lui stava ultimando la Porta della Morte per la basilica vaticana – fu chiamato a eternare nel bronzo i lineamenti del pontefice e la mano che aveva firmato la “Pacem in Terris”. E lì quel volto immobile guarda nella direzione del crocifisso, continuando quel gesto quotidiano di ogni giorno della sua vita», ricorda monsignor Claudio Dolcini, il parroco che domenica sera accoglierà le spoglie di San Giovanni XXIII nel paese natale. Lì, ancora, una scritta evoca le parole di Papa Roncalli confidate al suo confessore, pochi giorni prima di morire, cinquantacinque anni fa: «Il segreto del mio sacerdozio sta nel crocifisso, che volli porre di fronte al mio letto. Egli mi guarda e io gli parlo. Nessuno è respinto dal suo amore, dal suo perdono».   

La Stampa
© Riproduzione riservata
25/05/2018 14:30:52


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