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I nuovi piani della flotta Usa per fronteggiare la Cina e la Russia
La flotta Usa più “imprevedibile” per fronteggiare il ritorno della minaccia russa e cinese
Optimized Fleet Response Plan (Ofrp). Questo è il nome del piano del comando generale della flotta Usa, in vigore dal 2014, che regola i cicli dei Csg (Carrier Strike Group) e di tutto quanto vi ruota intorno, dai turni operativi a quelli manutenzione. L’Ofrp, voluto dall’allora comandante della flotta Amm. Bill Gortney – poi divenuto comandante del Northcom e del Norad sino al 2016 – prevede che le navi subiscano una rotazione di 36 mesi che comprendono 16 mesi di addestramento e attività di cantiere, 7 mesi di dispiegamento, e 13 mesi in cui i Csg mantengono un elevato livello di approntamento in caso sia necessario il loro intervento per far fronte a qualche emergenza.
Ora tutto questo sembrerebbe in discussione per volontà dello stesso Segretario della Difesa James Mattis, che, congiuntamente con alcune anime del Pentagono, ha richiesto che la flotta Usa sia più “imprevedibile” per fronteggiare il ritorno della minaccia russa ma soprattutto cinese.
Mattis, in una dichiarazione del mese scorso, non ha usato mezzi termini in merito, sostenendo che una simile organizzazione periodica della flotta sia perfetta per una linea di navigazione commerciale ma non per la Us Navy. A sostenerlo in questa presa di posizione forte che, se accolta, vedrà cambiare radicalmente le modalità di dispiegamento, costringendo la marina americana a rivedere tutta la struttura che governa l’apparato della Flotta, anche il Capo di Stato Maggiore della Difesa Gen. Joseph Dunford.
Secondo Mattis è fondamentale cambiare i piani per “assicurare che la preparazione alla competizione tra potenze globali non si basi semplicemente su un programma ciclico che mi permette di farti sapere esattamente, da qui a tre anni, quale portaerei sarà dispiegata e dove nel mondo”.
Il Segretario alla Difesa ha poi definito le prime rudimentali linee guida di quella che è stata chiamata “Dynamic Force Employment” (Dfe).
“Quando le faremo uscire (le portaerei n.d.a.) potrà essere per un periodo di dispiegamento più breve” sostiene Mattis “Ci saranno tre portaerei nel Mar Cinese Meridionale oggi, e poi, dopo due settimane, lì ne resterà solo una e le altre due saranno nell’Oceano Indiano. Saranno di ritorno a casa dopo un periodo di dispiegamento di 90 giorni e non passeranno più otto mesi in mare, così avremo una forza più pronta ad intervenire in massa col risultato di avere una capacità di affrontare gli scenari bellici di fascia alta senza gravare sulle famiglie e sui cicli di manutenzione; nel contempo aumenteremo i periodi dedicati all’addestramento”.
Non mancano però le critiche degli esperti in merito a questa nuova strategia. Affinché tutto il meccanismo di rotazione delle unità navali e del personale sia perfettamente funzionante occorre un certo livello di “prevedibilità”, che con il Dfe verrebbe a mancare creando non pochi disagi e problemi.
I cantieri navali hanno bisogno di sapere in anticipo quando dovranno accogliere la portaerei e quale sarà la natura delle riparazioni di cui necessita per preparare le maestranze in anticipo. Le scuole di addestramento devono sapere quando organizzare i corsi – e quindi reclutare gli insegnanti – con un certo anticipo. Gli ufficiali comandanti devono sapere che, quando devono prepararsi per il dispiegamento, il personale dotato di competenze essenziali, perso durante il normale avvicendamento tra le unità, sia rimpiazzato in tempo per la prossima crociera.
Perché, aggiungiamo noi, uno dei problemi della Flotta Usa è ancora la mancanza di personale frutto dei tagli alla Difesa della precedente amministrazione che costringe gli uomini a turni di rotazione spesso e volentieri intensi ma soprattutto costringe in porto alcune unità navali che non possono schierare il proprio equipaggio al completo. In quest’ottica appare quantomeno aleatoria, se pur in linea con la nuova strategia del Pentagono basata sulla “risposta dinamica”, la decisione di riattivare la Seconda Flotta, sciolta sette anni fa, che sarà di stanza nuovamente nella base navale di Norfolk in Virginia. Esiste infatti un grosso problema di approvvigionamento di personale altamente specializzato, che come tale abbisogna di un tempo che va dai 3 ai 7 anni per essere adeguatamente formato, pertanto l’Us Navy riteniamo che dovrà cercare personale ad interim tra i riservisti, con tutti i problemi che ne conseguono in fatto di aggiornamento, anagrafe e capacità persuasiva di una carriera che è sicuramente diversa dal punto di vista remunerativo rispetto ad un impiego civile di medio alto livello come potrebbe avere un tecnico specializzato.
Mattis sembra comunque deciso ad intraprendere questa radicale trasformazione, ed alcuni analisti sono concordi sostenendo che l’idea di impiegare i Csg in mare per turni di 90 giorni sottoponga le unità navali a stress minori dal punto di vista meccanico ed elettronicosnellendo quindi i tempi di cantiere. La manovra, del resto, era già stata anticipata dalla National Defense Strategy, secondo cui la Dynamic Force Employment “avrà tra le sue priorità il mantenere la possibilità e capacità di ingaggiare battaglie di ampio spettro ed allo stesso tempo provvedere a fornire opzioni di impiego proattivo e scalare della Joint Force”.
Si tratta infatti di una rivoluzione nel campo strategico non da poco: aumentare la prontezza significa diminuire la presenza avanzata e quindi diminuire la capacità di deterrenza di rimando.
In parole povere tenere i Csg meno tempo in mare significa sconvolgere la dottrina militare di impiego della Flotta che passerebbe dall’essere una forza deterrente, ovvero trovarsi (quasi) sempre in mare in aree di crisi per scoraggiare la possibile volontà di un avversario di “attaccare”, all’essere una forza “punitiva” cioè a dover prendere il mare in caso di mossa del nemico.
Come già detto, maggior flessibilità significa avere una maggior disposizione di uomini e di mezzi – ed è notizia di pochi giorni fa che la Us Navy sta cercando un nuovo incrociatore per sostituire i “Ticonderoga” – ma questo verrebbe comunque fatto in un primo periodo di transizione che vede ancora in vigore l’Ofrp. Così per diventare meno prevedibili – come vorrebbe Mattis – gli attuali gruppi di portaerei si vedrebbero costretti a crociere brevi ma più frequenti che causerebbero notevoli problemi di manutenzione riducendo la disponibilità operativa delle navi che si vedrebbero costrette in cantiere per periodi più lunghi, e quindi diminuendo conseguentemente, la possibilità di mantenere l’iniziativa strategica “a sorpresa” che il Segretario della Difesa vorrebbe. Occorre quindi ridefinire il modello di prontezza, diventato fragile proprio perché ancora legato al vecchio Ofrp, per ovviare a criticità di questo tipo e anche per trovare la quadratura del cerchio di un altro problema, quello famigliare che influisce molto sul morale degli equipaggi: nel vecchio modello erano previsti 7 mesi in mare, un tempo molto lungo lontano dagli affetti, e Mattis vorrebbe risolvere la questione proprio con turni di 90 giorni, ma avere poco personale a disposizione significa effettuare turni più frequenti e quindi passare più tempo lontano da casa ancora una volta.
La nuova tempistica di tre mesi proposta solleva anche dei problemi di ottimizzazione del rapporto tra il tempo che occorre per la preparazione, quello per la navigazione, e la reale efficacia della missione.
Infatti occorrono circa sei mesi per addestrare e certificare alla prontezza operativa una portaerei, la sua scorta navale ed il suo stormo imbarcato. Occorrono anche tempi diversi per la navigazione a seconda della meta che si deve raggiungere: per il Mediterraneo circa 7 giorni (a seconda della velocità di crociera) partendo da Norfolk e per il Mar Cinese Meridonale tra i venti e i trenta giorni partendo dalla base di San Diego. Questo significa che il periodo netto di permanenza in zona di operazioni si ridurrebbe di un tempo che vai dai 15 giorni ai quasi due mesi sul totale di 90 giorni disponibili.
Il piano di Mattis diventa quindi ambizioso per tutta una serie di ragioni, tra le quali alcune burocratiche che riguardano l’autonomia dei Comandi Combattenti (Cocom) che possono prendere decisioni in base al particolare ambiente operativo, ma riteniamo che sia l’unica mossa davvero possibile in risposta all’aumentata minaccia offerta dall’attuale quadro geostrategico, che vede il prepotente ritorno della Russia ma soprattutto della Cina
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