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Lavoro in Umbria, i dati Cgil: “Cresce solo quello discontinuo, precario e sottopagato”

Su 231mila lavoratori dipendenti, oltre il 30% guadagna non più di 10mila euro lordi l’anno

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“I dati ci confermano una situazione tutt’altro che rosea e che noi denunciamo già da tempo: salari molto bassi e un lavoro che cresce quantitativamente, ma solo in forma discontinua, precaria e sottopagata, con il conseguente aumento del numero di persone che pur lavorando restano povere. Una condizione che evidenzia la necessità di un cambiamento strutturale delle politiche di sviluppo del nostro Paese, a partire da quelle riforme del lavoro introdotte negli ultimi decenni, che, precarizzando e indebolendo il lavoro, non consentono più ai lavoratori di condurre una vita dignitosa, ma che non sono neanche state in grado di aumentare la capacità delle imprese di produrre ricchezza, come invece ci era stato promesso in maniera ideologica”. Lapidario il commento della segretaria generale della Cgil Umbria, Maria Rita Paggio, che ha così analizzato i risultati degli studi sulla condizione salariale e occupazionale in Umbria appena pubblicati dalla Fondazione Di Vittorio e dell’Ufficio economia della Cgil, basati su dati di Inps, Istat e Agenzia Umbria Ricerche. Studi che sono stati presentati nella sede della Cgil Umbria martedì 27 maggio dalla stessa Paggio e da Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio, e Andrea Corpetti, segretario regionale della Cgil Umbria.

La ricerca dell’Ufficio economia della Cgil, che analizza l’anno 2023, indica che i lavoratori dipendenti in Umbria in quell’anno sono stati 231.325 e il loro salario lordo annuale medio era di 20.993 euro. Di questi circa 231mila lavoratori complessivi, meno della metà, solo il 39% (90.244), aveva un contratto a tempo determinato, full time e per l’intero anno, con un salario medio di 31.851 euro. Ma poi abbiamo: quasi 20mila lavoratori (8,6%) con contratti a termine, part time e discontinui e un salario medio di circa 6.500 euro; altri 19.500 (8,5%) con contratti a tempo indeterminato, part time e discontinuo con salari sui 10.500 euro; altre 31mila persone (13,5%) con contratti a termine, full time e discontinui che guadagnano 10mila euro lordi l’anno. In mezzo a questi due estremi, si collocano i restanti 70mila lavoratori umbri, con varie tipologie di contratti e salari che andavano dai 16mila ai 28mila euro annui lordi. Se si guarda alle fasce d’età, risulta che: i lavoratori sotto i 35 anni di età erano il 30,4% del totale (circa 70.500), con un salario medio di 15mila euro; la stragrande maggioranza dei lavoratori aveva tra i 35 e i 64 anni (156mila, il 67,5%) e un salario medio di 23.800 euro; quasi 5mila lavoratori (2,1%) avevano più di 64 anni e un salario intorno ai 16.400 euro. “L’Umbria – ha rilevato Corpetti alla luce di questi dati – sconta anche un grave fenomeno di calo demografico con i giovani che, non trovando qui terreno fertile per le loro professionalità, cercano lavoro fuori regione. Le condizioni di lavoro in Umbria, infatti, sono particolarmente deficitarie, con diffuso part time e retribuzioni molto basse. La principale richiesta di lavoratori è in settori come il commercio e il turismo che, generalmente, essendo a basso valore aggiunto, offrono condizioni di lavoro part time e di bassa qualità e salari altrettanto bassi”.

Lo studio della Fondazione Di Vittorio si concentra, invece, sul periodo 2014-2024, cioè sui primi dieci anni dall’introduzione del Jobs Act, suddividendolo nelle fasce 2014-2019 e 2019-2024. Nel 2019, a cinque anni dall’introduzione del contratto a tutele crescenti, gli occupati in Umbria erano 363mila (222mila dipendenti a tempo indeterminato, 50mila a tempo indeterminato e 91mila lavoratori indipendenti), cresciuti del +4,1% sul 2014 (+14mila persone). In particolare, si registra una flessione degli indipendenti (-2,8%), un incremento modesto dei dipendenti a tempo indeterminato (+1,5%, pari a +3mila) e un aumento molto marcato dei dipendenti a tempo determinato (+37,2%, pari a +13mila). Dal punto di vista qualitativo, si consolida la tendenza alla polarizzazione con incrementi più rilevanti nelle professioni più qualificate, quelle intellettuali e scientifiche (+9,8%) e quelle tecniche (+11,4%) da una parte, e le professioni non qualificate (+11,9%) dall’altra. Il periodo 2019-2024 è influenzato ovviamente dalla pandemia da Covid-19. Ma al 2024 si contano in Umbria 373mila occupati complessivi, con un aumento rispetto al 2019 del 4,2%, pari a +15mila. Le variazioni degli occupati nei diversi macro-settori, nell’arco dei cinque anni presi in considerazione, dimostrano: l’impennata degli occupati nelle costruzioni nel 2021; la tenuta dell’occupazione nell’industria che, nonostante la flessione registrata nell’ultimo anno, fa segnare +11,8% nel 2024 rispetto al 2019; l’aumento significativo nel 2024 (+13,5% sul 2023) degli occupati nel commercio, alberghi e ristoranti; la caduta del numero di occupati in agricoltura (-37,5% rispetto al 2019), su numeri assoluti tuttavia modesti, da 16mila del 2019 a 10mila del 2024.

“I salari italiani – ha fatto il punto Sinopoli – sono tra i più bassi in Europa, stagnanti da circa il 1991. Le riforme del lavoro hanno peggiorato la condizione di vita di milioni di persone. I presupposti economici su cui si sono basate le scelte politiche sul mercato del lavoro degli ultimi anni erano del tutto infondati. Anche la relativa crescita dell’occupazione degli ultimi mesi non ha nulla a che vedere né con le politiche del governo né con il Jobs Act, ma è anzi una coda del bonus 110% e la conseguenza dell’aumento della spesa pubblica dovuta al Pnrr. Sono quindi le politiche pubbliche e gli investimenti pubblici e privati che trainano l’occupazione, non certamente la riduzione delle tutele. Anzi bisogna innalzare le tutele e i salari perché sono vincoli che costringono le imprese a investire in scienze e tecnologie, e quindi a fondare la crescita su presupposti che poi portano benessere a tutti”.

“I dati e le informazioni che abbiamo presentato oggi – ha concluso Paggio –, dimostrano ancora di più e ancora una volta l’attualità dei cinque questi referendari su lavoro e cittadinanza, su cui saremo chiamati a votare l’8 e il 9 giugno, e la stringente necessità di intervenire per modificare quelle norme sbagliate che hanno contribuito a portarci alla grave situazione attuale”.

Redazione
© Riproduzione riservata
27/05/2025 17:37:30


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