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Un guado a piu’… tinte nella storia economica di Sansepolcro e della Valtiberina

Da qui partiva per l’Arte della Lana di Firenze

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Secoli addietro, era l’attività economica prevalente a Sansepolcro e in Valtiberina. Stiamo parlando del guado, in latino “isatis tinctoria”, pianta biennale della famiglia delle brassicacee rientrante nella categoria delle “piante da blu”, perché si ricava un colorante di questo colore. La sua origine è asiatica, ma fin dai tempi del neolitico venne introdotta in Europa. In Italia, si è diffusa nelle zone del Piemonte, della Valle d’Aosta, della Liguria e anche del Trevigiano al nord; di Toscana, Umbria e Marche al centro e di Sicilia e Sardegna al sud. Al guado e alla sua attività di coltivazione e commercializzazione ha dedicato un interessante articolo il professor Franco Polcri, studioso locale ed ex sindaco di Sansepolcro, morto nel luglio del 2022, a proposito di vegetali per le manifatture nell’Italia centrale.

Polcri rileva come dal secolo XIII al XVIII molte generazioni di imprenditori e lavoratori si specializzarono nella filiera del guado per garantirsi la fonte primaria di sostentamento e ricchezza. Gli statuti municipali del 1441 e del 1571 contengono attenzioni e privilegi anche verso i guadaioli. A Sansepolcro, il guado ha un ciclo completo: produzione, raccolta delle foglie, macerazione e raffinazione, confezione e collocazione nei magazzini prima del trasporto a Firenze per la tintura dell’Arte della Lana. La fase centrale è quella che va dalla seconda metà del secolo XVI e la prima del XVII, perché è il periodo di una lunga depressione, anche economica, dopo secoli di benessere. Sansepolcro era un fiorente centro agricolo e di commerci, da sempre appetito sia per la posizione strategica dal punto di vista militare che appunto per la ricchezza derivante dal guado. C’era stato il dominio dei Malatesta, che sfruttarono i benefici derivanti dal controllo della zona e quando nel 1441 la città passa sotto Firenze, l’Arte della Lana emette disposizioni per monopolizzarne la produzione. Una decisione che – ricorda Polcri – segna definitivamente le sorti di Sansepolcro e della Valtiberina, tenendo presente che il patrimonio artistico e architettonico del Borgo è il risultato di una favorevole congiuntura sia politica che economica: il guado è prodotto infatti da famiglie di spicco quali i Pichi, i Gherardi, i Franceschi e i Galardi. E anche quando nel 1645 vi sarà la crisi, vi sono 20 attività, con 303mila libbre di prodotto macerato vecchio, pari a oltre 100mila chili e oltre 370mila libbre di prodotto nuovo, per un totale di 263mila chili. Quantità che appartengono – come ricordato - a famiglie di prestigio e forti dal punto di vista commerciale. Anche la Fraternita di San Bartolomeo e i Pari Gesuiti producono il guado e la coltivazione viene effettuata in alternanza con quella del grano; a essa si dedicano anche i mezzadri. Oltre che a Sansepolcro, la coltivazione è notevole anche a Cortona, nel vicino Altotevere Umbro da Città di Castello e Umbertide, nel Reatino e nelle valli marchigiane del Metauro e del Foglia. In inverno, a Sansepolcro si zappano i terreni in profondità e si concimano perché la pianta cresca in un contesto nutrito e grasso; il seme viene collocato in superficie alla fine di febbraio e il controllo dei coltivatori è costante, per evitare che altre erbe e radici ne compromettano la qualità. In questo senso, si giustifica la severità degli statuti. La raccolta delle foglie avviene in più fasi, dalla fine del mese di maggio fino a metà ottobre con cadenza di 25 giorni. Entro il 20 dello stesso mese avrebbe dovuto terminare la macerazione delle foglie nei molini ad acqua, perché sarebbero state ridotta in una pasta dalla quale si ottenevano pani le cui dimensioni erano determinate in base ai pesi stabiliti dal Comune. Vi era un’apposita scodella e i pani venivano messi ad asciugare in luoghi ben coperti sopra dei graticci, perché l’aria potesse sia circolare che prosciugarli, dopodichè i produttori li vendevano ai mercanti, che eseguivano altre operazioni prima della messa in vendita; entro febbraio, portavano i pani nei maceratoi; qui venivano spezzati e lasciati fermentare per 15 giorni. In seguito, i pani venivano irrorati con il vino per una nuova fermentazione e sistemati ancora sui graticci per il prosciugamento definitivo, prima della vendita all’Arte della Lana. La sottomissione a Firenze è provata anche da una disposizione statutaria, che impone ai tintori di comprare o far comprare guado, “salvo che da quelli che pubblicamente ne fanno mercanzia e con saputa de’ Consoli dell’Arta della Lana”. La tessitura è l’altra attività che funziona in parallelo con quella del guado: se però a Firenze si preparano panni fini, a Sansepolcro si producono quelli più grossolani, secondo disposizioni in vigore dal 1471 e più volte ribadite. Gli statuti sono severi nel fissare tecniche di produzione e regole di commercializzazione; si distinguono non a caso tessitori, lanaioli e guadaioli per svolgere le attività in modo professionale. E per garantire il rispetto delle procedure fissate, ogni anno in febbraio vengono nominati per estrazione due rivenditori di guado (un mercante e un agricoltore), che assieme a un giudice debbono controllare molini, maceratoi e campi durante la raccolta delle foglie. La situazione comincia a mutare a metà del XVI secolo, perché la crisi investe per intero l’economia toscana e la produzione del guado è costretta a scontrarsi con la riduzione delle esportazioni e con il declino della manifattura tessile. Erano state l’Inghilterra e i Paesi Bassi a togliere a Firenze il ruolo di preminenza sui mercati internazionali, grazie a prezzi più concorrenziali. La stessa attività dell’Arte della Lana ne aveva di conseguenza risentito, tanto che gli imprenditori anche affermati indicarono ai figli di seguire strade diverse; la stessa qualità del prodotto era divenuta scadente e a Sansepolcro la quantità di guado prodotta era scesa da 240 a 110mila libbre, con una tecnica produttiva calata di livello. Si accumulavano giacenze perché era sempre maggiore la quantità non venduta e il clima di sfiducia era palese: solo una breve ripresa nel 1621, quando il volume tornò quello dei vecchi tempi. E siccome da tempo si assisteva a una tendenziale diminuzione della qualità del guado, nel 1619 e deputati dell’Arte chiedono espressamente il ritorno ai livelli dei tempi migliori, evitando di mescolare il seme buono con quello selvatico e che si operi una miscela con i residui delle lavorazioni precedenti. La norma dice anche di conservare il prodotto macerato a temperatura costante, con multe previste per i trasgressori che non vengono condivise dai produttori, perché “non sarà mai possibile che cogliendo esso guado non si colga anco mescolata qualche fogliarella delle herbe proibite”. È di fatto l’ammissione di una mancanza di responsabilità totale da parte dei produttori nello svolgimento dell’attività, estesa anche ai “riveditori”. Il provvedimento ha sulle prime effetti benefici, anche se gli sbocchi di mercato tradizionali non “tirano” più e allora si chiede a Firenze l’autorizzazione per poter esportare anche a Siena e in altre piazze, al fine oltretutto di smaltire le giacenze. Era stato trovato quindi il sistema per garantire la sopravvivenza per operai e contadini e qualche imprenditore poteva anticipare i denari ai guadaioli per il seme della nuova annata. La famiglia Gherardi, in questo contesto, diventa protagonista come finanziatrice dell’impresa del guado e i suoi componenti ottengono l’autorizzazione a esportare, dal momento che i lanaioli fiorentini lavorano poco e realizzano panni per i quali il guado richiesto è limitato. Non sempre le stagioni erano favorevoli, anche a causa dei fenomeni atmosferici e quando la raccolta fu scadente a causa della siccità l’Arte si rivolgeva a Città di Castello, mettendo in difficoltà i guadaioli biturgensi. La modesta ripresa produttiva degli anni Venti del ‘600 restituisce un minimo di speranza, ma dal 1630 la crisi si riaffaccia anche sotto l’influsso della nuova ondata di peste e nel 1636 i cittadini di Sansepolcro non sono in grado di pagare i tributi al granducato. Lo scenario del momento non fa altro che rimpinguare le giacenze, il che induce i produttori locali a chiedere il permesso di esportare, nonostante anche nei vari Stati italiani la domanda del prodotto sia diminuita. Una relazione inviata al granduca intorno alla metà del XVII secolo è sintomatica di una recessione che non conosce la parola fine e nel contempo, a rendere complicata la situazione, c’è anche la vicinanza geografica dello Stato Pontificio, per cui il commercio di guado e panni non è vincolato dall’Arte della Lana. Un documento mette in evidenza l’inizio di una nuova epoca nella storia di Sansepolcro, costretta a rispettare le esigenze di una politica monopolistica sul conto di un prodotto che non ha più il mercato di prima, mentre a Città di Castello il commercio libero sta creando condizioni favorevoli. L’auspicio è quindi quello di liberarsi dalla morsa del monopolio fiorentino e di poter usufruire della libertà di effettuare scambi commerciali anche con lo Stato del papa, ma oramai è tardi: nella realtà economica della Toscana – conclude il professor Polcri – non vi erano più le giuste condizioni per la ripresa: i tempi floridi, che avevano dato lustro a Sansepolcro e permesso a tante famiglie di arricchirsi, compresa quella di Piero della Francesca, non sarebbero più tornati.

Notizia tratta dal periodico l'Eco del Tevere
© Riproduzione riservata
01/07/2023 09:10:29


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