Baia di Disko, mare coagulato e cattedrali di ghiaccio
Si trova nella Baia di Disko, protetta dall'Unesco
Solo le pupille di un felino riuscirebbero a smorzare la luce rimbalzata dalle cattedrali di ghiaccio fluttuanti nella Baia di Disko, protetta dall'Unesco. Guglie che galleggiano ipnotiche nel mare coaugulato e copiativo scaricate dal fiordo di Ilulissat, la lingua di ghiaccio più prolifica del mondo. Lunga quarantadue chilometri e con un fronte di sette, il ghiacciaio Kangia avanza infatti 20 metri al giorno producendo oltre 20 miliardi di tonnellate di ghiaccio all'anno ossia il 10% degli icebergs groenlandesi: scenografiche montagne bianche livide e irte.
Da millenni a Jakobshavn, nome danese del paese affacciato alla Disko Bay e raggelato dall’immenso ghiacciaio, si replica uno spettacolo roboante che richiama le piccole ma più celebri scariche del Perito Moreno patagonico. Già, perché gli estremi della terra si somigliano sebbene il mondo finisca meglio a nord che a sud tra scenari più contrastati, colori più vividi, silenzi più bianchi e profondi, paesaggi assoluti e non modellati dall'uomo e civiltà sopravvissute (la mano pesante dei conquistadores spagnoli ha infatti cancellato perfino le tracce degli Yamana nella Terra del Fuoco, mentre i danesi hanno salvato gli ultimi re di Thule). In comune oggi i due apici vantano solo l’effetto serra e i buchi di ozono che li surriscaldano oltremisura per cui in Groenlandia "lo scioglimento rapido del ghiaccio marino con bassa permeabilità mantiene l’acqua di fusione in superficie e la liquefazione dei ghiacci porta all'innalzamento dei mari che si è moltiplicato per quattro tra il 2003 e il 2013” ha appena rivelato Rasmus Tonboe del Centro per l'Oceano dell'Istituto metereologico danese.
Così l’isola più grande del globo - scoperta dai monaci irlandesi tredici secoli fa e nel 982 curiosamente battezzata “terraverde” dal vikingo Erik il Rosso (favorito dalla bella stagione era sbarcato sulle sponde meridionali dell’isola artica che d’estate sono ricoperte da un folta vegetazione e comunque pare che anche intorno all'anno Mille ci fu un periodo di eccessivo riscaldamento che lasciava assai verdi le sue coste) - oggi si restringe di circa un metro all’anno; ma ai cinquemila kaladlit di Ilulissat per ora poco cambia la vita. Tanto meno ai loro diecimila cani da slitta.
I meticci di eskimesi e danesi di Ilulissat continuano imbronciati a inscatolare gamberetti e a portare fiori di plastica al camposanto di croci bianche che dialoga con i crepacci del ghiacciaio. E i bellissimi quattro zampe, d’estate incatenati alle pile di slitte accatastate sotto le scale di legno che cuciono le palafitticole case prefabbricate dipinte di blu cobalto, vermiglio, arancio e giallo senape, seguitano a ululare inferociti e affamati in sincronia con le note secche dei “crac” di disgelo.
Entrambi, sia i cani dal pelo argentato e gli occhi fulminanti sia gli inuit dal viso di cuoio e i capelli corvini, sono sempre più dicotomici e costretti a trascinare una doppia vita. D’inverno nella baia onorata dall’esploratore Knud Rasmussen, cui Ilulissat ha dedicato un curioso museo, prevalgono la solidarietà sociale, la libertà d’azione e di iniziativa individuale e, nonostante l’assedio nevoso, una pur lenta mobilità spaziale: è il lungo periodo in cui si recuperano le slitte e le ataviche tecniche di caccia alla foca maculata e di pesca all’halibut (quella specie di “merluzzone” che impingua, travestito da platessa, i nostri supermercati).
D’estate, quando le ombre si allungano, dominano nei microbici e settecenteschi insediamenti urbani di Godhavn, Jakobshavn, Christianshab e Saqqaq, affacciati alla riviera di ghiaccio, la stabilità (che per i cani significa ceppo), gli orari inflessibili nelle fabbriche ittiche di surgelamento (quelle visitabili di Christianshab e Ilulissat molte delle quali della Royal Greenland) e una rigorosa programmazione dell’esistenza quotidiana per lo più scandita da un via vai di pescherecci: liberi dalla morsa del pack, si aggirano tra gli iceberg turriti in cerca di gamberetti: minuti e non molto saporiti.
A onor del vero anche quando c'é il "grande giorno", e cioè quando "il fulgore del sole é così intenso da far impallidire le stelle", è facile spiare sul mare traslucido gli eskimo in cerca di foche: coperti dai kamics pelosi e da pantaloni di foca sfrecciano su piccole lance impugnando i fucili per impallinare gli impellicciati mammiferi. E’ facile avvistarli a Saqqaq, avamposto di duecento anime che significa “posto al sole” e che sonnecchia, arrotolato intorno a una chiesetta del 1905, nello stretto di Atäsund vicino all’Egip Sermia, l’impressionante estremità di un ghiacciaio che non genera iceberg. Un muro bianco-azzurro.
In fondo, anche la maggior parte dei pochi turisti che si avventurano a queste latitudini in crociera con le rosse motonavi postali, pratica una consumistica caccia: ai tupilak, le grottesche statuine di pietra, avorio o legno dai magici attributi, e agli ulu, i coltelli a mezzaluna che da secoli vengono usati dagli eskimo per lavorare le pelli di foca conciate, ammorbidite con l’urina, e oggi assai ambite dal mercato russo. Prodotti artigianali recuperati e venduti dal 1981 quando il governo danese decise di istituire dei corsi in cui le vecchie inuit potessero insegnare ai giovani i dimenticati mestieri di un tempo e soprattutto l’arte di conciare e cucire le pelli di foca che restano indispensabili a meno 20°/30° (in estate anche i piumini e i jeans fanno alla bisogna). Al di là delle indicibili richieste di acquisto di Trump rifiutate con sdegno dalla regina danese Margherita II che rimane il capo di stato anche se la Groenlandia si autogoverna dal 1979, avendo gli USA da decadi una base militare a Thule già quindici anni fa incaricarono la CIA di stendere un rapporto sulle potenzialità economiche del paese e gli analisti americani identificarono nel turismo una importante risorsa per un paese che tutt'oggi - sussidiato ancora al 30% dalla Danimarca - vive all’80% di pesca ed esportazione di pesce congelato o essiccato. Sono gas e petrolio, ancora poco sfruttato, ad aver solleticato le mire americane.
E’ piuttosto recente la fioritura di Zodiac e vele che, cariche di seal&whale-watchers più curiosi delle foche e delle megattere che cercano, si aggirano tra i prismatici iceberg viola, azzurri o smeraldini. Pochi invece visitano nell’isola di Disko ancorata in mezzo alla baia, le miniere di ferro elementare di Qutdligssat abbandonate da decenni: uno scenario western, alla Nicholas Ray di “Johnny Guitar”. Solo aggirandosi tra le case deserte della miniera si può immaginare la solitudine invernale degli eskimo che, isolati per circa otto mesi all’anno da impenetrabili coltri di neve, dipendono da una piccola flotta di elicotteri bianco-rossi che assicurano approvvigionamenti ad usum quotidianum necessaria. Un via vai di meccanici volatili che fermano le ali nei circolari eliporti disegnati in tutti gli insediamenti: “mitteq”, ossia “là dove si posano gli uccelli”, li nominano gli inuit nella loro lingua sbrigativa e polisintetista dove una parola può comprendere una o più frasi ad alto valore concettuale. E' un'esistenza difficile quella dei groenlandesi. Non a caso dagli anni Sessanta ai Novanta i suicidi erano all'ordine del giorno e l'alcolismo mieteva vittime (ora pare sotto controllo: sono isole senza alcol e nei bar servono ai forestieri solo birra e con parsimonia).
Godhavn (Qeqertarsuaq) con ottocento anime è il più grosso centro abitato dell’isola di Disko annunciato da un arco a sesto acuto costruito con due enormi costole di balena incrociate. In passato era un porto attrezzato per la caccia al grande cetaceo; oggi invece è sede di una stazione di ricerca artica gestita dall'Università di Copenhagen. Tra piramidi di slitte scorticate dal freddo spuntano i meticci intenti a tagliare sui tetti di lamiera i filetti di pesce. Per essiccarli al vento: gelido ma secco alito polare cui abbaiono circa duemila cani da slitta. Le morbide macchie animate mugulano in estate a un anfiteatro di montagne rocciose color senape: inquietanti creste incendiate da un sole notturno.
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