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Il tifernate Ferdinando Tascini: l’ultimo carceriere di Benito Mussolini

Cento anni di vita gia’ festeggiati e un ritaglio di storia

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Il racconto di quei 10 giorni del settembre 1943 a Campo Imperatore, sul Gran Sasso: lui era addetto al centralino, prima dell’arrivo dei tedeschi. Tuderte di origine, vive da 70 anni a Città di Castello, dove ha fatto l’imprenditore agricolo  

Ha compiuto 100 anni lo scorso 28 dicembre, ma prima ancora che per questo invidiabile traguardo anagrafico è conosciuto anche a livello nazionale per essere stato l’ultimo carceriere di Benito Mussolini a Campo Imperatore, che oggi è nota soprattutto come stazione sciistica abruzzese del Gran Sasso, in provincia dell’Aquila. Ferdinando Tascini, nativo di Todi ma da 70 anni residente a Città di Castello, ha fatto notizia anche di recente per non aver potuto prendere parte alle celebrazioni del 25 Aprile; di conseguenza, ha seguito la diretta Rai da Roma e l’intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Tascini ha anche ottenuto uno speciale riconoscimento, ovvero una copia della Costituzione, donatagli assieme a una targa sia dal sindaco tifernate che dal prefetto di Perugia, Armando Gradone. La storia di Tascini, legata a quella circostanza di quasi 80 anni fa che è parte in primis della storia d’Italia, viene raccontata dal nostro periodico in queste pagine, prendendo spunto anche dalle dichiarazioni fatte nell’intervista rilasciata al professor Alvaro Tacchini e pubblicata nel sito “Storia tifernate e altro”.   

“Il 25 aprile è come la data di nascita di ognuno di noi, non si dimentica mai”. Questa la frase che ha di recente ripetuto Ferdinando Tascini, assieme a un’altra: “La Costituzione, dopo i tragici momenti della guerra, è stata sempre per me e la mia famiglia la bussola della vita che ci guida, di cui andare orgogliosi. Una bussola di vita che in particolare i nostri giovani dovranno sempre avere presente per orientarsi nel cammino della loro vita”. Nato da una famiglia contadina e terzo di cinque fratelli, Ferdinando Tascini frequenta l’istituto agrario “Ciuffelli” di Todi, anche se deve interrompere gli studi perché è in atto la guerra e l’Esercito lo chiama. Viene inviato in Montenegro per quasi un anno (siamo nel 1942), si arruola nei Carabinieri e poi, al ritorno in Italia, gli viene affidata una missione particolare: quella di andare a Campo Imperatore. L’incarico? Guardia di Benito Mussolini. Tascini non ha ancora compiuto 21 anni e non sa di doversi dedicare a questa specifica mansione. I fatti della storia relativa al secondo conflitto mondiale riportano che il 25 luglio 1943 il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia Benito Mussolini (fra coloro che gli votano contro c’è anche il genero, Galeazzo Ciano), per cui a Villa Savoia il re Vittorio Emanuele III comunica al duce che il governo sarebbe passato nelle mani del maresciallo Pietro Badoglio. Mussolini viene arrestato dai carabinieri all’uscita di Villa Savoia e portato dapprima nell’isola di Ventotene, poi in quella di Ponza. Il 7 agosto è trasferito nella villa Weber della Maddalena, in Sardegna, per poi giungere il 28 agosto a Vigna di Valle; da qui, in ambulanza, arriva alla base della funivia del Gran Sasso. È il 2 settembre: in località Fonte Cerreto, a quota 1125 sul livello del mare, il duce è ospitato per alcuni giorni nella villetta che ha poi dato il nome alla località situata alla base della funivia e che si chiama appunto “La Villetta”. Dieci giorni dopo, il 12 settembre, su ordine di Adolf Hitler, alcune SS e l’ex ufficiale Otto Skorzeny mettono in atto la ribattezzata “Operazione Quercia”, che porta alla liberazione di Mussolini. Un blitz nel vero senso della parola, concretizzato a oltre 2mila metri di altitudine. Cosa fa Ferdinando Tascini a Campo Imperatore? È addetto al telefono e riceve le notizie dalla base della funivia. L’altra metà della giornata gli rimane libera e la impiega per andare a passeggio vicino all’albergo. Nel racconto poi scritto dal professor Tacchini, l’odierno centenario parte dalla parentesi del Montenegro, evidenziando quella che fu la difficoltà principale del periodo, vissuta non soltanto da lui ma anche fra gli altri soldati: la fame. E sottolinea come vi fosse disparità di trattamento: le camicie nere mangiavano di più, nel senso che avevano maggiore disponibilità di cibo e allora lui riuscì a cavarsela perché amico di una camicia nera, con la quale divideva le razioni. Tascini mette in evidenza poi un altro aspetto, legato al contesto generale di un’Italia poco preparata alla guerra dal punto di vista militare: “Noi soldati – afferma – non sapevamo niente di cosa stesse succedendo in Africa e in Russia, eravamo al buio”. Prima che scoppiasse la guerra, la famiglia Tascini aveva vissuto il fascismo con distacco: il padre non era d’accordo con il regime, perché lui – che lavorava come mezzadro – stava dalla parte dei contadini e non da quella dei padroni. E il pensiero concentrato verso il lavoro aveva fatto passare in secondo piano la politica; in casa non se ne parlava molto e comunque l’atteggiamento tenuto era equidistante: né appoggio, né ostilità nei confronti del regime. Diverso il clima fra i giovani, che si sentivano più trasportati dall’ondata di entusiasmo alimentata dallo stesso fascismo e Tascini è cresciuto in quel contesto, nell’Opera Nazionale Balilla, dove si recava volentieri proprio perché l’istituzione era molto sentita. “Ricordo l’entusiasmo nell’ascoltare le parole roboanti del Duce – sono parole di Tascini nell’intervista su “Storia tifernate e altro” - quando si andava ad ascoltare i suoi discorsi qua e là, dove c’erano le radio. Il dirigente dell’Opera Balilla di Todi era un direttore scolastico, un fascista tutto d’un pezzo, non fanatico ma severo. Ci sapeva fare. Partecipare era un dovere, ma non ci pesava”. In queste parole è contenuto in pratica il segreto principale. Torniamo adesso alla pagina di Campo Imperatore; perché Tascini ci va? O meglio: perché vi viene mandato? “Vi era la possibilità di tornare dal Montenegro in Italia – precisa – e allora decisi di fare il corso allievi carabinieri a Roma, poi fui inviato alla legione del Lazio. Una sera, il colonnello ci disse che gli sarebbero serviti 30 uomini per un servizio speciale, senza spiegare di cosa si trattasse. Chi vi voleva andare, avrebbe dovuto alzare la mano. E siccome nessuno alzò la mano, prese una lista già predisposta e scelse lui. Fra quei nomi, c’era anche il mio”. Ferdinando Tascini parte la notte stessa: non sa dove andrà e quali incarichi gli verranno affidati. Arriva alla stazione della funivia di Campo Imperatore, dove c’è una villetta. La mattina del 28 agosto 1943 gira la notizia secondo cui sarebbe arrivata lassù un’autorità alla quale si sarebbe dovuta montare la guardia. A distanza di quasi un’ora, giunge sul un’auto di colore scuro e fra le persone che scendono dalla vettura c’è anche Benito Mussolini, il duce. “Lo riconobbi subito – dice Tascini – era distante una decina di metri, tutto vestito di nero compreso anche il cappotto ed era accompagnato da tre persone”. Alla precisa quanto scontata domanda – ovvero: quale impressione le fece Mussolini? – Tascini risponde manifestando quello che gli sembrò di notare: “Un uomo abbattuto, dimesso e distrutto; moralmente finito, ma questa era assai più di una sensazione: non era più lui”. Una volta arrivato il duce, ai militari vengono assegnati i compiti: dal momento che Mussolini sarebbe rimasto nella villetta di Campo Imperatore, i soldati avrebbero dovuto montare la guardia su di lui e sparare nel caso avesse tentato di fuggire, perché questo era l’ordine impartito. Né i soldati avrebbero potuto frequentarlo: al massimo, lo potevano vedere quando passeggiava attorno alla villetta; la guardia è armata e accanto al duce sfiduciato ci sono a turno soltanto il maresciallo dei carabinieri, l’ispettore di polizia e il suo attendente. Un’immagine insolita, quella di Mussolini: “In quei sette giorni di permanenza nella villetta – precisa Tascini – ebbi sempre la sensazione che lui si sentisse un uomo finito. Il suo futuro appariva molto incerto, né si poteva immaginare che i tedeschi sarebbero venuti per liberarlo”. Tascini fa presente come la guerra gli avesse tolto gli entusiasmi che aveva con il fascismo, il quale – rivelatosi poi per quello che era, cioè un regime – gli aveva generato un sentimento di avversione, lo stesso che il padre aveva provato verso le dittature. Dentro di lui, comunque, sono contrastanti gli atteggiamenti per Mussolini: “Ci avevano insegnato che lui era di origine popolare, che voleva bene al popolo e che faceva le leggi per il suo bene, ma che era stato tradito dai “signori”. E pensavo anch’io che, dopo tutto, lo avessero tradito proprio i “signori”, però già gli imputavo la colpa di aver voluto la guerra e di essersi alleato con i tedeschi. Avevo veramente maturato la convinzione che fosse una guerra sbagliata. E non avevo digerito l’alleanza con i tedeschi: non mi piaceva il modo in cui si comportavano”. Questo il Tascini pensiero. Dopo la villetta, l’albergo a quota 2200 metri di altitudine diventa la nuova prigione di Mussolini: è circondato da 30 carabinieri e da una quarantina di poliziotti della pubblica sicurezza. A Tascini viene affidato il centralino. La nuova destinazione del duce è più spaziosa, con radure e rocce che affiorano; lui ha la possibilità di fare passeggiate più lunghe, ma sempre scortato dagli accompagnatori e sempre vestito di nero e con il cappello. Al centralino pervengono comunicati in lingua tedesca e italiana e il bollettino di guerra viene recapitato tutti i giorni dal comandante a Mussolini, che di conseguenza è tenuto informato dai bollettini passati da Tascini. L’8 settembre è il giorno dell’armistizio e non appena viene data la notizia via radio è comprensibile l’esplosione di gioia, anche se di brevissima durata: la percezione è infatti quella secondo cui la guerra non sia ancora finita. Un’euforia che alla fine è soltanto un fuoco di paglia. “Avevo notato il passaggio di ricognitori sopra il nostro cielo – ricorda Tascini – con un aereo che sorvolava l’albergo e girava, probabilmente per scattare fotografie, perché dopo la liberazione di Mussolini trovai in terra la foto aerea della zona in cui ci trovavamo. Magari, era una foto caduta ai tedeschi, tant’è vero che un loro ufficiale me la strappò dalle mani. C’era un rischio per noi, ma lo capimmo solo dopo la liberazione del duce. In quel 12 settembre – sono sempre parole di Tascini – mi stavo riposando nella mia cameretta, quando udii rumori forti: erano atterrati i tedeschi; dalla finestra vidi che nello spazio adiacente all’albergo c’erano 4 o 5 alianti per terra e le SS avevano in mano le mitragliatrici semipesanti. Ci avevano circondato. Gli alianti erano in totale 11 e in ognuno c’erano almeno 6-7 tedeschi: l’avvertimento dato è che, se fossimo stati attaccati, avremmo dovuto prendere posizione e attendere gli ordini, armati. Mentre i tedeschi stavano circondando l’albergo, noi eravamo in attesa di ordini e dalla finestra dell’altra camera vidi un altro aliante atterrato vicino all’ingresso, dal quale uscì un ufficiale italiano con le mani alzate che si dirigeva verso l’albergo. Si trattava del generale Fernando Soleti, capo della polizia, che era stato preso in ostaggio dai tedeschi e che venne avvicinato dal commissario Ippolito. Un breve colloquio e poi l’ordine della resa, ma di fatto era già così, perché con le nostre armi non saremmo stati in grado di resistere all’attacco dei tedeschi, i quali presero atto dell’assenza di resistenza da parte nostra e si comportarono abbastanza bene. Entrarono e presero possesso del centralino; proprio in quel momento, Mussolini si fece vedere alla finestra e i tedeschi gli gridarono “Duce, duce!”. È stata l’unica volta in cui l’ho visto sorridere: non uscì e fu una delegazione con il comandante tedesco e gli ufficiali italiani a recarsi da lui. A noi dissero di scendere disarmati e provarono a farlo anche con un ufficiale: li fermò il tenente Alberto Faiola”. Venne inviato il segnale con un razzo per far capire che l’impresa era riuscita e c’era la “cicogna” che atterrò sulla radura; Mussolini vi salì dopo essere sceso dalla sua camera, ma prima si rivolse a carabinieri e poliziotti, dicendo loro: “Siete stati tutti molto gentili e io vi ringrazio; mi ricorderò di voi”. Questo è un altro dei ricordi vivi evidenziati da Tascini, così come la risposta del tenente, che disse al duce di non poterlo seguire perché aveva famiglia e figli. Mussolini lo tranquillizzò, facendolo rimanere e allora provvide il commissario assieme al comandante tedesco. Nel racconto, Tascini precisa che la “cicogna” prese il volo e che a un certo punto sparì, dando l’impressione che fosse precipitata, ma poi ricomparve, quindi nessun problema. I soldati tedeschi bruciarono gli alianti e da alcuni loro aerei lanciarono paracadutisti sulla stazione di partenza della funivia per garantirsi il controllo di essa; un’autocolonna li portò via tutti e il tenente rimasto sul posto si dichiarò dispiaciuto per non aver fatto in tempo a trasferire Mussolini in un altro posto, dove i tedeschi non avrebbero potuto liberarlo. Una versione alla quale Ferdinando Tascini ha tuttavia creduto con qualche riserva. Sta di fatto che, chiuso questo capitolo, Tascini torna a casa e resta nascosto fino al passaggio del fronte. Avendo già in mano il diploma conseguito all’istituto agrario “Ciuffelli” di Todi, dove era stato il padre a iscriverlo per farlo studiare, Tascini ha potuto iniziare a fare il fattore e del padre, che si chiamava Francesco, ricorda il discorso che gli fece in proposito, con il dito alzato: “Dopo aver studiato, vai ad amministrare la roba degli altri. Stai attento che niente ti rimanga attaccato alle mani… Tu puoi e devi vivere con il tuo”. Il padre, contadino di fede socialista, passò alla Democrazia Cristiana dopo la guerra, quando divenne piccolo proprietario. E anche Ferdinando Tascini è stato impegnato in politica nelle file dello scudo crociato, fino a ricoprire il ruolo di segretario della sezione di Fratta Todina. Tanto era l’entusiasmo che lo muoveva: comizi e cortei erano divenuti una consuetudine dopo la fine della dittatura, che lui proprio non sopportava. E a livello di opinioni politiche, era contro sia il comunismo che il fascismo, seppure con una doverosa precisazione: “Ho sempre distinto il comunismo dai comunisti”. È stato il lavoro a costringerlo ad abbandonare l’impegno in politica, con successivo trasferimento a Città di Castello assieme alla moglie Adiana, che ben presto diverrà conosciuta come “la maestra di Riosecco”. Nel Tifernate, Tascini mette in piedi un’azienda agricola operante nel settore della tabacchicoltura, per poi lavorare successivamente in Comunità Montana. Quattro i figli, che vivono vicino a lui nella località di San Donino: Massimo, Maria Teresa, Maria Francesca e Luca. I due maschi hanno proseguito l’attività del padre nell’azienda agraria; la grande famiglia è completata da nove nipoti e sette pronipoti, anche se purtroppo accanto a lui non c’è più la moglie Adiana: è morta dieci anni fa e di conseguenza non ha potuto festeggiare il traguardo dei cento anni raggiunto dal marito. A Campo Imperatore, Ferdinando ha fatto ritorno da 97enne nel 2019, accompagnato da una delle figlie e da altri parenti stretti. Facile immaginare il sentimento che lo assalì in quella circostanza: “Ho preso subito il fazzoletto perché mi veniva da piangere, ero emozionato. Non mi sembrava di essere lì, non riconoscevo niente ma era una sensazione straordinaria”. Un invito ai giovani nel non mollare davanti alle difficoltà e – tornando all’inizio del nostro speciale dedicato alla sua figura – nel prendere come riferimento la Costituzione della Repubblica Italiana, perché “lì c’è tutto”, come ha avuto modo di ribadire.     

 

Notizia tratta dal periodico l'Eco del Tevere
© Riproduzione riservata
15/06/2023 06:58:56


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