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Il Papa: sarà beato Livatino. Il “giudice ragazzino” primo magistrato nella storia della Chiesa

Fu assassinato dalla mafia ad Agrigento il 21 settembre 1990, all'età di 37 anni

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Trent’anni dopo essere stato trucidato dai mafiosi della «Stidda», sale agli onori degli altari per volere di Jorge Mario Bergoglio. Sarà beato Rosario Livatino, il «giudice ragazzino», assassinato ad Agrigento il 21 settembre 1990, a 37 anni. Si tratta del primo magistrato beato nella storia della Chiesa. Di Livatino, nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, la Santa Sede ha riconosciuto il martirio in odium fidei (in odio alla fede). È questo il contenuto di un decreto di cui papa Francesco ha autorizzato la promulgazione, nel corso di un'udienza col cardinale Marcello Semeraro, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. E qualche ora dopo il magistrato Caselli ricorda la frase «più celebre» di Livantino: «Non importa essere credenti, ma credibili».

«Sub tutela Dei» («Sotto la tutela di Dio») è il motto di Livatino, la sigla con cui chiudeva le annotazioni in agenda.

Nel tempo, sono stati raccolti documenti e testimonianze per circa 4mila pagine a sostegno del processo di canonizzazione di Livatino. Tra i testimoni, anche uno dei killer, Gaetano Puzzangaro, che sconta l'ergastolo.

Erano passate da poco le 8,30 quella mattina. Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicattì dove abitava, stava andando al tribunale di Agrigento, quando è stato avvicinato, braccato e ucciso senza pietà da un commando mafioso. Stava percorrendo il viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Livatino ha tentato una disperata fuga, inutilmente. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l'allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, e da Marsala Paolo Borsellino.

Nella sua attività Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la «Tangentopoli siciliana» e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni. In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ucciso perchè «perseguiva le cosche mafiose impedendone l'attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l'espansione della mafia».

La causa di beatificazione è stata portata avanti dall'arcivescovo di Catanzaro-Squillace, monsignor Vincenzo Bertolone. Nel processo è emerso che chi ordinò quel delitto conosceva quanto Livatino fosse retto, giusto e attaccato alla fede e che per questo motivo, non poteva essere un interlocutore della criminalità. Andava quindi ucciso. 

Dopo la sua morte, nel 1993, papa san Giovanni Paolo II, incontrando ad Agrigento i suoi genitori, aveva definito Livatino «un martire della giustizia e indirettamente della fede». Anche papa Francesco ha lodato la figura del magistrato: parlando nel novembre del 2019 ai membri del Centro Studi Rosario Livatino, lo ha definito «un esempio non soltanto per i magistrati, ma per tutti coloro che operano nel campo del diritto: per la coerenza tra la sua fede e il suo impegno di lavoro, e per l'attualità delle sue riflessioni».

Salvatore Insenga, cugino del giudice Rosario Livatino, unico parente in vita, dice all’AdnKronos di essere «particolarmente commosso, sto pensando in questo momento a mio zio e mia zia, i genitori di Rosario che hanno atteso questo momento per tanti, tantissimi anni. Penso che in questo momento staranno gioiendo insieme in paradiso». Insenga pensa anche «a tutte le vittime di mafia. Spesso faccio iniziative con Libera, sono con loro ogni 21 marzo e so quante tragedie ha fatto la mafia». Aveva 20 anni quando è stato ucciso il cugino Rosario: «Non c'era differenza tra il ruolo di giudice e quello del cugino, era una persona seria e precisa, sia nel lavoro che nella vita affettiva e con i suoi genitori e i parenti era un uomo buono e accogliente. Era sempre pronto a mettere la buona parola, era un uomo di pace».

L’ex procuratore Giancarlo Caselli, parlando all'AdnKronos, vuole rievocare «la frase più celebre di Rosario Livatino, quella che tutti conoscono e che tutti ricollegano a lui. Livatino diceva “non importa essere credenti, importa soprattutto essere credibili”. È la sua credibilità che ne ha fatto un credente meritevole addirittura della beatificazione». 

Mentre l'ex procuratore Gherardo Colombo afferma all'AdnKronos che «sarebbe stato bello che a Rosario Livatino non fosse accaduto ciò che è accaduto, ma il suo è stato un sacrificio importante, la sua vita è stata una grande testimonianza, la vita di una persona schiva, senza mania di protagonismo. Si tratta, dunque, di un rilevante riconoscimento».

Il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento, accoglie «con gioia e gratitudine l'annuncio della beatificazione». Nell'esercizio della professione «come nella vita personale, Livatino ha incarnato la beatitudine di quelli che hanno fame e sete della giustizia e che per essa sono perseguitati – evidenzia Montenegro - Con una coscienza profondamente libera dall'asservimento e dai compromessi con i poteri forti di turno, caratterizzata da una altissima levatura morale e da uno spiccato senso del dovere, si è consacrato a restituire dignità a un territorio ferito e difeso dalla mentalità mafiosa».

La cerimonia di beatificazione di Rosario Livatino potrebbe svolgersi nella primavera del 2021 proprio ad Agrigento. 

Notizia e foto tratte da La Stampa
© Riproduzione riservata
22/12/2020 14:02:46


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