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Vecchio Monastero delle Benedettine a Monterchi: che fare?

La struttura si trova in forte degrado é arrivato il momento di intervenire

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Un bel capitolo di storia per Monterchi, trattandosi di un luogo in piedi da più di mille anni, attualmente fermo, ma con un futuro che non può chiamarsi abbandono. In via della Reglia, di rimpetto all’edificio della ex scuola elementare che dal 1992 ospita il capolavoro della Madonna del Parto di Piero della Francesca e che oggi può definirsi museo “compiuto”, si trova il complesso di San Benedetto. Nato come ospizio per viandanti e infermi e trasformatosi poi in cenobio di monache camaldolesi e successivamente di benedettine cassinesi, ha ospitato anche ragazze povere; vi è stata a suo tempo una scuola materna e le suore vi hanno alloggiato fino al 2004, salutando dopo cinque secoli di presenza fissa. Rinnovamenti, guerre, distruzioni e anche il terremoto hanno più volte cambiato il volto di questa struttura, che con l’inizio del nuovo millennio è stata inserita fra le candidate a diventare la dimora definitiva proprio della Madonna del Parto. Non solo: nel marzo del 2009, il consiglio comunale di Monterchi (sindaco Massimo Boncompagni) aveva approvato l’accordo con la diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro per il trasferimento dell’opera nell’ex convento delle benedettine, poi la questione si è arenata. Peccato per il prezioso materiale di archivio andato in parte smarrito (semprechè non salti di nuovo fuori, anche se è molto difficile) e in parte deteriorato, ma c’è pur sempre una testimonianza scritta: quella di don Bruno Giorni, sacerdote scomparso anni addietro che – come diversi altri colleghi religiosi – amava scrivere libri e pubblicazioni; in una di queste, dal semplice titolo “Monterchi”, don Bruno dedica un capitolo alla chiesa e al monastero di San Benedetto.

UN RICOVERO PER VIANDANTI E INFERMI IN ORIGINE

La tradizione orale fra le monache, che però avrebbe poggiato – stando alla loro tesi – su documenti scritti, era quella secondo cui in origine (siamo in un’epoca antecedente all’anno 1000) vi fosse appunto un ricovero per viandanti e infermi, donato a San Romualdo e divenuto successivamente un cenobio di monaci camaldolesi poi occupato dalle suore Benedettine, che tuttavia sarebbero arrivate non prima della seconda metà del XV secolo. I documenti ai quali le suore fanno riferimento sarebbero stati conservati nel loro archivio fino al 1901, quando la badessa di allora li consegnò a tale padre Gregorio dell’abbazia di San Paolo a Roma, poiché quest’ultimo avrebbe dovuto essere il curatore della pubblicazione in una rivista dell’ordine benedettino. Purtroppo, padre Gregorio morì di lì a poco e dei documenti si sono perse le tracce, anche se c’è chi sostiene che potrebbero trovarsi in qualche fondo dell’archivio dell’abbazia romana, nonostante le risposte negative dei loro responsabili. L’altro materiale d’archivio è stato danneggiato dall’umidità all’indomani del terremoto del 1917, quando venne sistemato insieme con altre suppellettili negli scantinati del monastero. Le carte divennero illeggibili e consumate dalla muffa, così le religiose le gettarono via. Riportata questa doverosa precisazione, anche da parte di don Bruno Giorni, torniamo alle suore Benedettine, delle quali non si parla nello statuto del 1451, che obbligava il Comune a elargire ogni anno offerte alle monache clarisse. Il documento più antico sul monastero ci riporta al 1525, anno nel quale arriva in visita l’allora vescovo Leonardo Tornabuoni, anche se il materiale scritto è alquanto scarno. Nel 1569, invece, il nome delle religiose è riportato nello statuto di Monterchi: “Si faccia offerte delli beni del comune, per li priori e sui consiglieri, alle suore di San Benedetto per l’elemosina da farglisi il dì della Natività e della Resurrezione di N.S.J.C. et il dì d’ogni santi, soldi venti per ciascuno giorno”. In una visita apostolica nell’anno 1583, il cronista precisa come il monastero delle benedettine cassinesi sia posizionato fuori delle mura del castello di Monterchi; le suore sono 32, alle quali vanno aggiunte due novizie e una servigiana. La loro rendita è di 80 staia di grano, 45 barili di vino e 25 scudi ricavati dalla coltivazione del guado. Le monache portano il velo, recitano l’ufficio romano, indossano camici di lino e hanno tutto in comune, senza possedere alcuna cosa. Se qualche giovane manifesta la volontà di farsi suora, può entrare in convento anche a 12 anni, ma prima del compimento dei 15 non può ricevere l’abito; per la professione occorrono 16 anni e per voti solenni e velo 25. L’abbadessa viene eletta con votazione fatta alla grata – presente il vicario – e resta in carica per tre anni. La chiesa è attigua al monastero e viene descritta come “bella, decorosa, ben pavimentata e tinteggiata, con due altari e dedicata a San Benedetto”.

L’ACCESSO NEL CONVENTO ALLE GIOVANI EDUCANDE, POI LA GUERRA BARBERINA: EDIFICIO RASO AL SUOLO E SUORE          “EMIGRATE” A CITERNA

Un’altra tappa significativa è quella del 1616, anno in cui le giovani educande possono accedere dalla porta della clausura. Era normale, per quei tempi, chiudere le adolescenti all’interno di un convento, perché era luogo di educazione soprattutto per le ragazze di buona famiglia; il miglior luogo nel quale la giovane avrebbe potuto studiare, essere avviata a svolgere lavori tipicamente femminili e ricevere insieme una formazione religiosa e morale. Semmai, poteva accadere che qualche genitore costringesse la figlia ad andare con le suore per indirizzarla nella vita religiosa, anche se questa non sentisse dentro alcuna vocazione, finendo con il diventare una persona infelice. La prima educanda entrata in convento a Monterchi si chiama Vittoria Marcucci ed è di Città di Castello; dopo di lei, quasi tutte ragazze del posto e soprattutto di famiglie benestanti, perché solo queste avevano le possibilità economiche per pagare la retta. Nel 1620, la chiesa del monastero viene rimessa a nuovo e vi viene eretto l’altare della santissima Annunziata; nel 1638, il pittore Girolamo Monanni dipinge la tela raffigurante l’Annunciazione, mentre nel 1643 la Guerra Barberina si rivela devastante: per sfuggire alle milizie pontificie, la notte del 30 luglio le suore sono costrette a uscire dalla clausura per nascondersi dentro le mura castellane. Una settimana più tardi, il 7 agosto, dopo che i soldati del papa dovettero ripiegare verso Citerna, le religiose fanno rientro nel monastero, anche se il pericolo del nemico è tutt’altro che scongiurato. La guerra riprende nella prima decade di ottobre e in questo caso l’edificio viene raso al suolo; negli atti episcopali sta scritto: “Funditus dirutum et a militibus devastatum”. Che significa: è stato smantellato dai soldati e assolutamente devastato. È il 24 di ottobre quando Tobia Pallavicino, capo delle milizie e padrone di Monterchi, prende prigioniere le religiose e le conduce a Citerna, magari con l’intento di soccorrerle e favorirle. A Citerna, le suore trovano ospitalità con spirito fraterno dalle francescane del convento di Santa Elisabetta e sarebbero propense a rimanervi anche a guerra terminata, dal momento che non hanno più una residenza, ma il vescovo di Città di Castello le rispedisce a Monterchi e qui trovano alloggio in varie case, fino a quando il granduca non prova compassione nei loro confronti e decide di riceverle nel suo palazzo. Si ritiene che l’edificio in questione fosse stato quello in cui risiedeva il vicario e che quindi sorgesse nella piazza; probabilmente, è l’attuale palazzo Marzocchi.

LA RICOSTRUZIONE DEL MONASTERO CON IL RIPRISTINO DELLA CLAUSURA

Le monache vi rimangono fino alla ricostruzione del monastero - con trasferimento che avviene il 27 novembre - e accompagnate dal vescovo in persona che, dopo aver benedetto i locali, “stabilisce, decreta e dichiara la clausura”. Qualche educanda può essere accolta. Nel giugno del 1645, Ferdinando II de’ Medici invia a Monterchi l’ingegnere granducale Giovanni Francesco Cantagallina per una relazione sugli interventi da fare a seguito delle rovine causate della guerra. La stima delle spese è intorno ai 500-600 scudi, quale importo minimo per riportare le monache ad abitare nel convento; poi, se un domani dovessero arrivare più soldi, sarebbe stato opportuno costruire un altro convento nel castello. Per il reperimento dei 500-600 scudi, gli “ambasciatori” del Cantagallina consigliano di valersi dei 400 scudi che la fraternità di Santa Maria di Monterchi ha messo da parte nel Monte (in banca) e per il supplemento si possono applicare le entrate della comunità, esentando per un po’ di tempo Comune e Vicariato dal pagamento delle contribuzioni annue a Firenze. Il granduca approva l’idea e quindi dà il via all’opera, con i lavori che cominciano all’inizio dell’anno successivo (1646) e a novembre un’ala del convento è già pronta per essere abitata; le 24 religiose, più 2 servigiane, vi tornano accompagnate dal vescovo, dai sacerdoti e dalla popolazione. Il monastero è completato negli anni successivi e alla spesa totale di 3766,13 lire deve provvedere per intero il Comune di Monterchi, dal momento che non sono più disponibili i 400 scudi della compagnia della Misericordia. Una sentenza della magistratura riconoscerà un secolo più tardi al Comune il diritto di rivalsa e da questo momento i documenti in possesso parlano di ordinarietà della situazione fino al 1785, l’anno della “Riforma” dei conventi femminili in Toscana voluta dal granduca Pietro Leopoldo. Il provvedimento, datato 21 marzo, stabilisce che dal 1° maggio seguente vi sarebbe stato il riconoscimento dei “monasteri di monache” solo per quelli in cui le religiose, a maggioranza di voti, avessero scelto la “renunzia totale a ogni proprietà e l’osservanza di una vita perfettamente comune”. Nel caso, sarebbero stati considerati “conservatori” e le suore monterchiesi si trovano pertanto a dover fare una scelta: optano per la seconda forma e quindi il monastero diventa una realtà a connotazione anche sociale: con l’abolizione della clausura stretta, le educande sono ammesse senza alcuna formalità e possono entrare come convittrici (oblate) anche le donne non sposate e le vedove. Al suo interno, viene istituita una scuola gratuita per le povere fanciulle nella quale si insegna loro a scrivere, leggere e a usare l’abaco, poi a cimentarsi nei lavori domestici e anche a conoscere la dottrina cristiana. Questo passaggio dalla regola rigida della clausura a una meno restrittiva e più aperta alimenta tuttavia un certo dissapore, al punto tale che il vescovo Roberto Costaguti è costretto più volte a intervenire, ma senza successo, fino al 1° gennaio 1805, quando minaccia il rimedio estremo della soppressione, stabilisce alcune norme che di fatto riformano l’istituto e fa sì che vengano rispettate “sotto pena di colpa grave riservata”. Mossa numero uno: il ripristino della clausura e quindi la cancellazione dello status di conservatorio. Ma ecco le precise disposizioni: “Resti nel suo vigore l’obbligo di far le scuole per pubblico servigio e che uniscasi l’uso, con sovrana provvidenza introdotto e dalla Santa Sede autorizzato, di poter ricevere in clausura oltre l’educande anche quelle vergini e matrone che vogliono separarsi dal secolo senza obbligarsi ai voti”. E sottopone anche le oblate e le educande ai “doveri della claustrale disciplina”. I fatti danno ragione al vescovo: pace e serenità tornano a regnare fra le religiose, che integrano molto bene la vita attiva con quella contemplativa. Ma per poco: il 13 settembre 1810, in uno specifico editto, Napoleone stabilisce la soppressione di tutti i conventi maschili e femminili, prendendo i rispettivi beni, salvo quelli addetti alle opere di assistenza e di educazione; il conservatorio di San Benedetto è momentaneamente risparmiato, ma l’anno successivo un nuovo editto dell’imperatore riconosce soltanto gli istituti retti  da insegnanti con abilitazione.

LA RIFORMA DI NAPOLEONE  E IL RIENTRO DELLE RELIGIOSE, FINO AL NUOVO “SFRATTO” DECRETATO DAL TERREMOTO DEL 1917, POI LA CHIUSURA DEFINITIVA NEL 2004

Siccome il convento di Monterchi non possiede un requisito del genere, viene chiuso: le religiose sono secolarizzate e i loro beni incamerati. Erano proprietarie dei poderi “la Casa”, “Godiola”, “Montione”, “Colle”, “Reglia”, “la Foce” e altri terreni, venduti in totale per 108658,11 lire. Una volta caduto Napoleone, la comunità di Monterchi molto si adopera per la riapertura del monastero, come testimonia la lettera dell’allora gonfalone Giuseppe Paci indirizzata al vescovo: “Dopo avere umiliato le più vive istanze al regio trono e avere implorato l’autorevole mediazione di monsignor arcivescovo di Firenze – scriveva – sentendo che è a disposizione dei rispettivi Ordinari il riaprimento di quelle case religiose che stimeranno utili al pubblico bene in nome di tutta questa popolazione supplica caldissimamente ad avere carità di questo povero paese, che dall’unico convento delle religiose benedettine, oltre tutti i vantaggi spirituali e temporali, ne traeva anche il considerevolissimo servizio della pubblica istruzione alle famiglie”. Il vescovo, monsignor Roberto Costaguti, ottiene la facoltà di riaprire il convento: così sarà il 23 aprile 1816 dal governo e il 13 agosto dalla Santa Sede, mentre il rientro ufficiale delle suore avviene l’8 settembre 1817 con la riammissione delle vecchie religiose, più due suore camaldolesi mandate dal governo. Sei anni di vita trascorsi fuori avevano logorato lo spirito delle religiose, per cui si rende necessaria un’opera di riforma al fine di riportare la comunità alla “primitiva osservanza”. Lo farà il nuovo vescovo di Sansepolcro, Annibale Tommasi, succeduto al defunto Costaguti, servendosi di una suora benedettina di grandi doti umane e di straordinaria virtù che aveva riformato il monastero di Lapo, vicino a Fiesole: madre Niccolina dei Santi Apostoli, al secolo Caterina Cipriani, che arriva a Monterchi nel maggio del 1829 insieme con tre consorelle e vi trova cinque professe, una novizia, una oblata, due professe già del conservatorio di San Bartolomeo del Borgo (vestite di bianco in quanto camaldolesi), sei converse, due postulanti e una commessa. Due di queste suore, madre Teresa Alberti e suor Cecilia oblata, escono dal convento perché non disposte ad abbracciare la riforma, ma in compenso sono diverse le giovani disposte a farsi monaca. Terminata la propria opera, madre Niccolina torna a Lapo, dove sarebbe morta nel 1856; a seguito della riforma e fino alla soppressione del 1866, le benedettine continuano a gestire la scuola per le fanciulle e a pagare le insegnanti. Madre Niccolina porta le suore all’accettazione spontanea delle costituzioni del suo monastero, approvate da Leone XII nel 1827, poi a promulgare la riforma sarà il vescovo Tommasi nel maggio del 1830. Dieci anni più tardi, nel 1840, vengono eseguiti importanti lavori di restauro nella chiesa, che “fu ridotta a forma più regolare, arricchita di stucchi, dell’altare in marmo e di un nuovo ingresso con colonne e ornati alla facciata”. All’interno, la chiesa si apre su un orto ampio e con un pozzo centrale, circondati da un loggiato e da un’alta muraglia con nicchie. Con il ritorno della regola benedettina e la chiesa risistemata, le suore vivono in piena armonia, anche se le notizie che arrivano a loro non sono buone: il 7 luglio 1866, così come aveva fatto Napoleone, il governo sopprime di nuovo le corporazioni religiose, incamerando i relativi beni, anche se l’applicazione della disposizione non è immediata e consente alle suore di rimanere in convento come “pensionate”; tutto questo fino al 29 ottobre 1888, quando viene intimato loro di lasciare l’edificio, pena l’espulsione: le “pensionate” si sarebbero dovute trasferire nel monastero aretino di Santo Spirito. Si origina una iniziale protesta, che produce una breve dilazione: il 14 febbraio 1889 vengono spostate nel Palazzo Guadagni di via del Borghetto, messo a disposizione dalla proprietaria Settimia Razzichelli. Il monastero con la chiesa e gli annessi orti è rimasto libero e, come tale, viene messo all’asta (prezzo base 2317 lire) e aggiudicato il 7 settembre 1889 per 2367 lire al marchese fiorentino Angiolo Lottaringhi della Stufa, che lo acquista non per sé, ma per riportarvi le suore. L’anno seguente finiscono all’asta anche “il mobiliare del convento, l’argenteria da chiesa, i quadri, le panche, il confessionario e le statue, più i gradini di marmo dell’altare maggiore, per la somma di lire 250”. L’acquirente è stavolta, per conto delle monache, il notaio Sebastiano Alberti per una somma pari a 430 lire, nell’aprile del 1890. Le religiose possono così rientrare nel loro luogo storico il 30 aprile 1890 e vi rimangono fino al 26 aprile 1917, giorno nel quale a “sfrattarle” è il terribile terremoto che a Monterchi provoca anche diversi morti e che causa gravi lesioni al convento; le monache sono ospitate dapprima dalle cappuccine di Santa Marta a Sansepolcro e poi, in parte, dalle benedettine di Fabriano e da quelle di Lapo. A Monterchi tornano dopo 5 anni dal sisma, nel 1922. E siamo alle epoche più recenti: il 22 febbraio 1984, il monastero viene aggregato all’Istituto delle Benedettine del Santissimo Sacramento; da allora, le religiose hanno assunto questa denominazione e la loro vita è consacrata al culto dell’Eucarestia: adorazione e riparazione, in linea con lo spirito della fondatrice, la venerabile madre Mechilde de Bor. Convento e chiesa, sottoposti a restauro, sono rimasti a lungo in ottimo stato e le monache, ligie alla regola di San Benedetto e alle costituzioni approvate da Leone XII nel 1827 (con le modifiche apportate dal concilio Vaticano II), hanno lasciato Monterchi nel 2004. Da quel momento, è calato il sipario, anche se la sola ipotesi di trasferirvi un domani la Madonna del Parto di Piero della Francesca ha riportato subito alla ribalta della cronaca l’antico complesso del paese della Valcerfone.            

DA IPOTIZZATA DIMORA DEFINITIVA DELLA MADONNA DEL PARTO A LUOGO IN COMPLETO STATO DI DEGRADO

Già, ci voleva l’ipotesi Madonna del Parto per restituire interesse a un immobile che, già poco inserito nel contesto paesano, è finito nel completo abbandono dopo che le ultime suore se ne sono andate. Errore grave, anzi gravissimo, anche perchè abbandono significa con il tempo degrado, tanto più che si tratta di un edificio di indubbio interesse storico-architettonico e con anche opere d’arte al suo interno. Semprechè qualcuno non le abbia già rubate, perché saccheggi e furti sono stati l’inevitabile conseguenza della situazione e si sommano alle altre problematiche: sulla struttura piove infatti dal tetto e il pericolo di crollo dei solai è sempre più concreto. Dal sostanziale dimenticatoio in cui era finito, il vecchio monastero delle Benedettine è tornato all’improvviso in auge nel marzo del 2009, quando il consiglio comunale – dopo ben tre ore di discussione – aveva dato l’ok al trasferimento della Madonna del Parto nell’ex monastero. Amministrazione comunale e diocesi in accordo: da attendere solo la decisione del Ministero dei Beni Culturali, dopo aver sentito la Soprintendenza. Non mancarono, anche in questo caso, le polemiche in un paese già diviso in due fra i sostenitori del ritorno dell’opera nella chiesa di Momentana e fra quelli favorevoli al trasferimento nel centro storico: a parte l’ulteriore questione legata alla proprietà dell’affresco, comunque risolta (la comunità locale lo sente suo, ma nel documento si parlava di “appartenenza”), le disquisizioni si originarono su due aspetti principali: l’assenza di una stanza adeguata nella quale si tenesse conto delle condizioni di luce e spazio, elementi fondamentali di esaltazione della pittura di Piero della Francesca e poi l’idea di trasformare l’ex convento in un resort di lusso. Un capolavoro di quel genere all’interno di un resort sarebbe stata una palese incongruenza; a distanza di dieci anni, si è investito sul museo della Madonna del Parto nella ex scuola elementare (con tutti i supporti multimediali) e il monastero continua a rimanere chiuso e abbandonato. Non si capisce poi il motivo per il quale la Chiesa metta il veto su qualsiasi proposta di riutilizzo: per Monterchi, potrebbe trattarsi di un efficace contenitore in chiave ricreativa. E allora lo diciamo una seconda volta: a parte il fatto che prevenire è meglio che curare, ma perchè la diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro – con in testa il vescovo Riccardo Fontana – non fa qualcosa, impedendo se non altro un deterioramento dello stabile? Se non può ospitare la Madonna del Parto per motivi “tecnici” o se le volontà non sono propense verso di esso, poco importa: un sistema di riconversione dovrà pur esservi. Così com’è da 15 anni – lo diciamo senza peli sulla lingua – è una vergogna e su questo crediamo che anche il sindaco Alfredo Romanelli e l’amministrazione siano concordi. Su questo confidiamo: se il Comune ha un progetto per il vecchio convento, si faccia avanti; potrebbe essere questa l’operazione più importante del secondo mandato di Romanelli.     

Notizia tratta da Eco del Tevere
© Riproduzione riservata
07/10/2019 10:08:31


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