Opinionisti Claudio Cherubini

La vite e la coltura promiscua

L’allevamento della vite in Valtiberina nei primi decenni del Novecento

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In un articolo di qualche settimana fa abbiamo parlato delle origini del vino nell’alta valle del Tevere, riprendiamo quel racconto e vediamo qual era la situazione nei primi decenni del Novecento

Innanzi tutto agli inizi del Novecento, qui come nel resto d’Europa, era nata una nuova viticoltura. Infatti intorno alla metà dell’Ottocento si erano diffuse alcune malattie della vite provenienti dalle Americhe e soprattutto la fillossera (comparsa in Francia nel 1866) fu una vera apocalisse, distruggendo vigne di intere regioni come anche dell’alta valle del Tevere. La filossera colpiva le radici della vite e quando la sofferenza della pianta si manifestava oramai era tardi. Il problema fu risolto innestando i vitigni sfuggiti all’epidemia sull’apparato radicale della vite di origine americana. Infatti il parassita nella vite americana non attacca le radici, ma soltanto le foglie ed è quindi visibile appena si manifesta. In tutta l’Europa la sciagura della fillossera provocò come detto la quasi totale estinzione dei vitigni autoctoni e la diffusione dei vitigni francesi che per primi avevano adottato la soluzione al problema.

Combattuta la filossera e sostituiti i vitigni in Valtiberina l’allevamento della vite agli inizi del Novecento non appariva diverso da quello dei secoli passati: ancora caratterizzava il paesaggio agrario, crescendo sugli alberi ai bordi dei campi, per lo più coltivati a grano. La vite produceva, secondo l’opinione di Eugenio Ribustini, dell’ottima uva dalla quale si otteneva “vino sangiovese alla Pieve, […] albana e canaiola in Anghiari, Monterchi e Sansepolcro”. Agli inizi del Novecento il vino della Valtiberina veniva venduto anche all’estero: negli anni intorno al 1909, il proprietario terriero Marco Collacchioni esportò mediamente insieme a 5000 quintali di grano altrettanti di vino, che si dice di prima qualità, e anche la Società Vinicola di Sansepolcro in quegli anni spediva all’estero circa 200 quintali di vino; altro vino era esportato dalla ditta Giovanni e F.lli Buitoni che, oltre alla pasta, spedìva all’estero circa 500 quintali fra vino e olio di oliva.

Verso la fine del XIX secolo, sotto la spinta innanzitutto dell’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti della Valle Tiberina e poi dei Comizi agrari, delle Società di mutuo soccorso, del continuo incremento demografico, con l’inizio del lento processo di passaggio della proprietà fondiaria nelle mani della classe borghese, anche in Valtiberina l’agricoltura aveva iniziato ad essere più efficiente. Tuttavia nell’alta valle del Tevere, come nel resto dell’Italia centrale, il progresso dei sistemi agrari a rotazione continua, favorito dall’intensificarsi delle colture delle foraggere, del mais, delle patate, fu rallentato dalla coltura promiscua che caratterizzava queste terre e che aveva “tradizionalmente una parte ben maggiore nell’economia del podere mezzadrile” (Cfr. E. Sereni). All’avvento del fascismo, l’agricoltura della Valtiberina si trovava in una situazione migliore rispetto a quella di venti anni prima, ma se in un primo momento, fino al 1925, il fascismo proseguì anche in agricoltura una politica d’ispirazione liberista, poi invece prevalse “una politica di protezione e di chiusura dei mercati”. Sintetizzando nei primi cento anni della storia d’Italia, per l’agricoltura gli anni dal 1897 al 1913 furono quelli più “luminosi”, mentre il periodo dal 1925 al 1938 rappresentò l’intervallo di tempo peggiore (Cfr. G. Orlando).

Per quanto riguarda l’allevamento della vite la sua presenza è legata allo sviluppo della struttura poderale che fin dal basso medioevo prevedeva che i campi arabili fossero divisi fra loro da alberi, che assai spesso erano viti (ma anche olivi e alberi da frutto), e che gli stessi costeggiassero anche le prode e i viottoli. L’espansione dei terreni a coltura promiscua incrementò nei secoli la presenza di queste coltivazioni legnose. D’altra parte invece, la diffusione della mezzadria rallentò notevolmente la coltura di queste piante che ombreggiando i campi limitavano le colture erbacee e soprattutto il grano, “ritenuto principale mezzo di sostentamento, e da coltivarsi perciò in ogni ritaglio del terreno” (Cfr. G. Pinto). In ogni caso, ancora nella prima metà del Novecento, la maggior parte delle viti della Valtiberina erano in colture promiscue, anche se durante le rilevazioni del catasto agrario del 1929 i vigneti erano presenti un po’ ovunque nella Valtiberina: unica eccezione era rappresentata dall’assenza di vigne, come di qualsiasi altra coltura legnosa specializzata, nel territorio comunale di Monterchi. Le vigne tuttavia coprivano poche ettari di terreno: 13 ettari a Sansepolcro, 4 ad Anghiari, 20 a Caprese e 9 a Pieve S. Stefano; di fronte a queste cifre è evidente come la coltura specializzata della vite fosse ancora nel 1929 poco sviluppata in questa regione. Invece la coltura promiscua per eccellenza in tutta l’alta valle del Tevere era la vite.

Nonostante le difficoltà nel confrontare i dati del catasto lorenese con quelli del catasto agrario di un secolo più tardi, si può affermare con sicurezza che in Valtiberina la viticoltura nel 1929 era più diffusa rispetto al terzo decennio del XIX secolo. Nel 1935 Fernando Montemaggi così descriveva il paesaggio agrario della Valtiberina: “La prima impressione che, dal punto di vista agrario, prova chi per la prima volta mette piede  nell’Alta Valle del Tevere, è quella di trovarsi di fronte ad una zona fortemente vitata: forse anche troppo. Soprattutto è la pianura che colpisce, tutta cosparsa di oppi che signoreggiano ed ostentano un dominio incontrastato sulle colture sotto stanti”. Infatti nel 1929, nelle colture promiscue, la vite interessava: quasi 41 km2 del territorio comunale di Anghiari, cioè il 31%; oltre 34 km2 a Sansepolcro, pari a quasi il 38%; poco meno di 10 km2 uguale al 34% del comune di Monterchi; quasi 14 km2 nel territorio di Pieve S. Stefano, cioè il 9%; quasi 8 km2 pari all’11%, nel territorio comunale di Caprese Michelangelo. Quindi nel 1929 circa 107 km2, quasi un quarto dei terreni coltivati promiscuamente, vedevano crescere la vite. La produzione media per ettaro delle viti piantate insieme ad altre colture era molto alta. Ovviamente essa era notevolmente inferiore a quella dei vigneti, ma queste colture specializzate erano, come detto, assai rare, tanto da non rappresentare che una percentuale minima (neanche lo 0,2% del territorio della Valtiberina toscana), quasi insignificante. Nelle colture promiscue la vite aveva una produzione media che nel periodo 1923-28 fu calcolata intorno ai 16,4 quintali per ettaro a Monterchi, intorno a 15 a Sansepolcro, quasi 14 a Pieve S. Stefano, circa 13 a Caprese e solo 7,75 quintali per ettaro nel territorio di Anghiari. Questi livelli di produttività furono i più elevati della prima metà del XX secolo. Infatti agli inizi degli anni Trenta il settore della viticoltura, benchè ancora tenesse sempre un posto di rilievo nell’economia dell’azienda agricola, risentì dell’influenza negativa di vari eventi fra i quali i principali furono la crisi dei prezzi, la gelata del 1929 e l’imposta sul consumo. Nel periodo precedente a questa crisi, secondo il Montemaggi, la viticoltura “offriva la massima rendita del podere”: “In quell’epoca, come risulta dai dati di produzione dell’uva, desunti dalle denuncie fatte presso i vari Comuni nel dopo-guerra, l’Alta Valle del Tevere produceva molto più uva che grano, – circa ⅓ – con prezzi unitari che in alcuni casi superavano le 130 lire per quintale”.

Questa elevata quantità di uva non poteva che andare a discapito della qualità del vino, ma di questo ne parleremo un’altra volta.

Claudio Cherubini
© Riproduzione riservata
14/01/2019 11:12:46

Claudio Cherubini

Imprenditore e storico locale dell’economia del XIX e XX secolo - Fin dal 1978 collabora con vari periodici locali. Ha tenuto diverse conferenze su temi di storia locale e lezioni all’Università dell’Età Libera di Sansepolcro. Ha pubblicato due libri: nel 2003 “Terra d’imprenditori. Appunti di storia economica della Valtiberina toscana preindustriale” e nel 2016 “Una storia in disparte. Il lavoro delle donne e la prima industrializzazione a Sansepolcro e in Valtiberina toscana (1861-1940)”. Nel 2017 ha curato la mostra e il catalogo “190 anni di Buitoni. 1827-2017” e ha organizzato un ciclo di conferenza con i più autorevoli studiosi universitari della Buitoni di cui ha curato gli atti che sono usciti nel 2021 con il titolo “Il pastificio Buitoni. Sviluppo e declino di un’industria italiana (1827-2017)”. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi storici in opere collettive come “Arezzo e la Toscana nel Regno d’Italia (1861-1946)” nel 2011, “La Nostra Storia. Lezioni sulla Storia di Sansepolcro. Età Moderna e Contemporanea” nel 2012, “Ritratti di donne aretine” nel 2015, “190 anni di Buitoni. 1827-2017” nel 2017, “Appunti per la storia della Valcerfone. Vol. II” nel 2017 e in riviste scientifiche come «Pagine Altotiberine», quadrimestrale dell'Associazione storica dell'Alta Valle del Tevere, su «Notizie di Storia», periodico della Società Storica Aretina, su «Annali aretini», rivista della Fraternita del Laici di Arezzo, su «Rassegna Storica Toscana», organo della Società toscana per la storia del Risorgimento, su «Proposte e Ricerche. Economia e società nella storia dell’Italia centrale», rivista delle Università Politecnica delle Marche (Ancona), Università degli Studi di Camerino, Università degli Studi “G. d’Annunzio” (Chieti-Pescara), Università degli Studi di Macerata, Università degli Studi di Perugia, Università degli Studi della Repubblica di San Marino.


Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono in nessun modo la testata per cui collabora.


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